La notizia – apparsa su Le Monde per la prima volta – è tanto eclatante quanto le performance dell’artista che la ha generata: il nome di Maurizio Cattelan è rimbalzato da una testata giornalistica all’altra, ma, questa volta, a dare il via alle danze non è stato l’arcinoto autore veneto. Cattelan – infatti, e almeno per il momento – è protagonista passivo della vicenda, considerato che è stato citato in giudizio dal suo altrettanto famoso “fornitore”, l’ottantenne scultore francese Daniel Druet.
Creatore di innumerevoli figure di cera, negli anni ’70 Druet lega il suo nome a quello del Musée Grévin di Parigi, per cui immortala centinaia di personaggi famosi, da Margaret Thatcher a Marguerite Yourcenar, passando per la Gioconda e arrivando sino a François Mitterand.
Alla fine degli anni ’90, poi, inizia a collaborare con Maurizio Cattelan, per cui realizza, nel corso del tempo, una decina di statue di cera, protagoniste di altrettante opere, divenute celeberrime: si va da Giovanni Paolo II colpito dal meteorite (La nona ora, 1999, battuto da Christie’s nel 2001 per 886.000 dollari) a quell’Hitler-bambino inginocchiato in preghiera (Him, 2001, venduto nel maggio 2016, sempre ad un’asta di Christie’s, per 17.189 milioni di dollari).
Nell’atto cha ha avviato il processo parigino, Druet precisa che le istruzioni che riceveva per l’esecuzione delle sculture di cera erano vaghe, riferite da collaboratori dell’artista o scritte su un fax di poche righe. Ma, soprattutto, si lamenta del fatto di non essere mai stato citato nei cataloghi e nelle mostre in cui venivano presentate le opere di Cattelan. E per questo chiede (a Cattelan, al gallerista Emmanuel Perrotin e alla Monnaie de Paris, presso la quale, nel 2016, si è tenuta la personale “Not afraid of love”) un risarcimento di 5 milioni di euro.
Il 13 maggio si terrà la prima udienza; la domanda a cui il Giudice dovrà trovare risposta è, in buona sostanza, questa: l’atto creativo da cui nasce un’opera è quello del suo ideatore o quello di chi materialmente la realizza? Detto altrimenti, è autore colui che ha l’intuizione o colui che realizza il pezzo? Un dilemma non di poco conto nel caso di specie.
Se fossimo in Italia, la causa si deciderebbe in base a una normativa composita, strutturata principalmente su codice civile, legge sul diritto d’autore (L. 633/1941 – LDA) e codice processuale civile.
In particolare, la nostra legge sul diritto d’autore stabilisce la regola generale per cui i diritti di sfruttamento economico di un’opera d’arte e i diritti morali spettano al suo autore, ma affianca a tale regola delle deroghe, relative ai diritti patrimoniali.
Una di queste deroghe riguarda, appunto, il caso dell’opera dell’ingegno creata su commissione, rispetto alla quale i diritti di utilizzazione economica spettano al committente.
Tanto si desume dagli articoli 1; 8; 12 e seguenti e 110 della LDA, a commento dei quali la giurisprudenza ha altresì chiarito che “ … il committente acquista il diritto di sfruttamento economico dell’opera in modo automatico, senza bisogno che vi sia un vero e proprio atto di trasferimento …”. Si tratta, invero, di un’interpretazione costante, che ritroviamo sia in casi più risalenti nel tempo (v., ad es., Corte di Cassazione, sentenza n. 1938 del 1963) che in periodi più recenti (Corte di Cassazione, sentenza n. 13171 del 24 giugno 2016; sentenza n.18633 del 27 luglio 2017).
Ciò significa che è il committente a poter sfruttare l’opera, non solo nei limiti dell’oggetto e delle finalità del contratto, se un contratto esiste, ma anche laddove l’accordo non sia stato messo per iscritto.
Quest’ultima è, infatti, un’ipotesi possibile, avendo chiarito la giurisprudenza che l’art. 110 della legge n. 633 del 1941, nel prevedere che la trasmissione dei diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno deve essere provata per iscritto, non è applicabile quando il committente abbia acquistato i diritti di utilizzazione economica dell’opera per effetto ed in esecuzione di un contratto d’appalto concluso con l’autore, poiché, in tal caso, non ha luogo un trasferimento, dal momento che tali diritti sorgono direttamente in capo al committente.
Potrebbe essere dunque questa la soluzione della controversia Cattelan/Druet? Qui, peraltro, l’input creativo è pacificamente di Cattelan, non di Druet.
Ma allora, può almeno trovare spazio la pretesa di Druet di vedersi citato ogni volta che le sue cere, divenute poi opere di Cattelan, vengano esibite, riprodotte e, più in generale, diffuse? Se il Giudice dovesse dare risposta affermativa a questa domanda, Druet si vedrebbe risarciti i 5 milioni di euro che ha richiesto.
Sotto questo profilo, occorre tuttavia distinguere tra “opera dell’ingegno” ed “esecuzione o specificazione artistica”, ancorché di altissimo livello e pregio.
In alcuni frangenti, la differenza è netta e indubbia: gli artigiani che lavoravano su un disegno di Canova o su un suo modello in gesso per poi realizzare la scultura, avrebbero potuto pretendere di essere menzionati in associazione con l’opera finita? No, visto che l’idea, il disegno, il bozzetto ed il “tocco finale” erano quelli dell’artista, mentre gli atti meramente esecutivi erano accessori alla creazione ed esulavano certamente dal concetto di “opera dell’ingegno”, poi introdotto alla base di qualsiasi normativa sul diritto d’autore.
Ma non sempre la questione è così lineare: si pensi al mastro vetraio, ritenuto coautore di una scultura (Cassazione, sentenza n. 24970 del 25 novembre 2011), o, con uno sguardo alle nuove tecnologie, alla richiesta di registrazione presentata all’U.S.C.O. – l’Ufficio Copyright statunitense – a nome di un algoritmo operativo in un sistema di intelligenza artificiale e in relazione ad un’opera interamente creata dalla macchina (“A Recent Entrance to Paradise”). Per la cronaca, in quest’ultimo caso, l’ufficio americano ha respinto la domanda di registrazione.
Staremo a vedere se Monsieur Druet avrà la stessa sorte.