Il trust. Un trentennio dopo il suo ingresso nell’ordinamento italiano (la Convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento fu ratificata con Legge 16 ottobre 1989, n. 364) come si è evoluto lo strumento? Di questo si è discusso durante il convegno “Il giudice italiano e il trust”, organizzato dall’Associazione “Il trust in Italia”:
Trentun anni nei quali il trust, da istituto “straniero” è diventato, grazie all’opera interpretativa dei Giudici e della dottrina, uno strumento di uso comune, dalle caratteristiche e dai limiti (quasi sempre) ben definiti.
Proprio sul concetto di “metabolizzazione” dell’istituto si è concentrato l’intervento del prof. Maurizio Lupoi, presidente dell’Associazione e massimo esperto italiano in materia: il trust, quale “flusso giuridico”, è stato percepito dagli operatori come risolutore di problematiche che il diritto italiano non sarebbe stato in grado di affrontare in maniera efficiente e, come tale, è stato “assimilato”. Un processo certamente impegnativo per l’interprete, che si è visto – e si vede quotidianamente – costretto a rendere compatibile con l’ordinamento interno un istituto di diritto straniero, che (come previsto dalla richiamata convenzione internazionale, di cui l’Italia è parte) deve essere applicato tale e quale (salvi i limiti di ordine pubblico).
La “metabolizzazione” richiede all’operatore, quale condizione necessaria, una conoscenza approfondita della legge straniera regolatrice del trust di volta in volta posto alla sua attenzione: lo sforzo richiesto è notevole e il rischio di “incomprensione”, con la conseguenza di un pericoloso travisamento di caratteristiche e tipicità dell’istituto, elevato.
In ogni caso, l’avvenuta assimilazione dell’istituto è certamente un dato di fatto e, per quanto si tratti di un processo necessariamente ancora in corso (lo sarà fino al momento in cui non dovesse intervenire una legge regolatrice di diritto interno), il trust fa già parte dell’esperienza quotidiana di tutti noi.
Lo strumento soffre ancora, tuttavia, di una residua (per la verità, sempre minore) diffidenza da parte di taluni, spesso scettici verso un istituto dal nome straniero e – in talune circostanze – venuto agli onori delle cronache per un suo utilizzo non certo virtuoso.
Sotto tale ultimo profilo, non può negarsi come il trust continui ad attrarre una minoranza di soggetti erroneamente convinti che esso possa essere utilizzato al fine di sottrarsi all’adempimento di obbligazioni legittimamente assunte: ciò è comprovato dalla casistica giurisprudenziale in tema di azione revocatoria, tuttora piuttosto nutrita.
Niente, tuttavia, di più falso: il fatto che, nella quasi totalità dei casi, il Giudice accordi al creditore il rimedio richiesto, sottolinea che l’ordinamento respinge con fermezza ogni tipo di trust illecito od abusivo.
Eppure i trust revocati o dichiarati nulli continuano comprensibilmente a “far notizia”, mentre – in maniera silente – decine, centinaia, di trust validi, trasparenti e strumentali al perseguimento di meritevoli di tutela (quando non anche di pubblica utilità o di interesse sociale) vengono comunemente istituiti ed utilizzati.
Il ruolo del professionista, nel respingere fermamente (e, ove possibile, dissuadere) ogni ipotesi di trust abusivo, è certamente essenziale, anche al fine di promuovere una maggiore conoscenza e diffusione dell’istituto presso la collettività.
Nel corso dei lavori ci si è chiesti se una legge italiana sul trust possa essere utile a vincere alcune residue “resistenze”: se, da un lato, è stato affermato che la stessa potrebbe in effetti contribuire a far percepire l’istituto come più “vicino”, dall’altro sono state sollevate preoccupazioni in merito al contenuto di tale eventuale legge, che – per essere utile e non dannosa – dovrebbe essere predisposta da redattori altamente qualificati, nel rispetto tanto della prassi e della giurisprudenza internazionali, quanto delle caratteristiche delineate dalla giurisprudenza interna.
Un settore in cui, invece, un intervento chiarificatore è stato sollecitato a più voci è quello relativo all’imposizione indiretta, nel quale – com’è a molti noto – si registra un contrasto tra giurisprudenza (ormai orientata nel senso della tassazione “in uscita”, non producendo il conferimento in trust alcun effetto traslativo né nei confronti del trustee – non proprietario, ma mero “amministratore” vincolato all’esecuzione del programma – né nei confronti dei beneficiari) e prassi (l’Agenzia delle Entrate tuttora ritiene applicabile la tassazione “in ingresso”).
Tale quadro di incertezza, suscettibile di ripercuotersi non soltanto sulla possibilità di “cristallizzare”, per chi ne abbia interesse, le aliquote vigenti dell’imposta di successione e donazione, avvalendosi delle franchigie di legge, ma potenzialmente anche sulla stessa percorribilità del trasferimento in esenzione delle partecipazioni di controllo a favore di discendenti (art. 3 comma 4-ter T.U. successioni e donazioni), impone che siano risolti i dubbi interpretativi insorti, forieri – essi certamente sì – di una forte limitazione all’utilizzo dell’istituto.
Massimiliano Campeis
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