Il rapporto tra i ricchi e la loro fortuna è intrappolato in una serie di falsi miti, che devono essere sfatati affinché alla ricchezza in quanto tale venga riconosciuta la giusta dimensione sociale
La pattuglia dei ricchi italiani detiene circa un terzo della ricchezza del paese. Negli Usa è il 76% circa
La ricchezza italiana ha una dimensione sociale e produttiva. In un certo senso è “social”, nel senso che è patrimonio di un ceto più esteso (proporzionalmente) rispetto ad altri Paesi
La ricchezza in Italia è stata sempre molto bramata e poco stimata. L’idea della ricchezza come astrazione come stato di beatitudine, di infinite possibilità, di fama e successo, spesso abbinata all’idea di diventare ricco per magia (la vincita, l’eredità, il colpo di fortuna), si sono scontrate con idee di ricchezza vista come prodotto di ingiustizia e peccato. Una ricchezza ottenuta a scapito di qualcuno o qualcosa, dove gli echi cattolici e quelli politici si uniscono nel creare un’ombra di impresentabilità alla ricchezza stessa.
Per farlo, proviamo a rappresentare in tre punti alcuni tratti della ricchezza in Italia, per conoscerla meglio.
1. Ricchezza = Ineguaglianza. Non in Italia…
Ricchezza degli individui ed ineguaglianza economica e sociale sono stati spesso considerati strettamente correlati, soprattutto in Italia. In realtà il rapporto è più complesso. In alcune parti del mondo ricchezza è effettivamente uguale ad ineguaglianza. I paesi con le maggiori ineguaglianze sono apparentemente polari anche nei loro sistemi politici: gli Usa e la Cina, ad esempio sono fra i paesi dove la ricchezza è più concentrata in poche mani e la concentrazione è aumentata negli ultimi anni.
L’Italia (ed in buona parte anche l’Europa) non è sulla medesima traiettoria. In Italia la ricchezza è “social”, nel senso che è patrimonio di un ceto più esteso (proporzionalmente) che altrove. In media – ci dicono i dati della ricerca Deloitte pubblicata nell’ultimo scorcio del 2019 – la pattuglia dei ricchi italiani detiene circa un terzo della ricchezza del paese (negli Usa è il 76% circa). Anche le traiettorie italiane ci dicono che non è in corso quella concentrazione della ricchezza che si registra altrove. Le conseguenze non sono banali, anche sul versante politico: parlare di patrimoniale agli italiani (tanto per citare un tema recentemente riemerso, per ripagare i costi del lockdown Covid) significa far accapponare la pelle ad una quota di elettori molto più ampia e distribuita.
Circa il 70% delle imprese fino a 50 milioni è in mano a famiglie e non ad entità finanziarie astratte. Nel bene e nel male anche questo è solido radicamento sociale. Insomma, la ricchezza italiana è sociale e produttiva, la sua componente core è moderna, legata ai processi di sviluppo del paese.
La conseguenza in termini finanziari di questa ricchezza “diffusa” è la maggior presenza di ricchezze sulla parte bassa della scala (tra 500mila e un milione di € di ricchezza finanziaria) a cui va aggiunta mediamente una quota di ricchezza % di quella reale stimabile mediamente nel 100-150% di quella finanziaria. Questo rende ad esempio importante per quasi tutto il private banking l’integrazione di servizi fra ricchezza finanziaria e reale.
2. Ricchezza = vita da nababbo? Non sempre
Nel mito popolare ricchezza e bella vita sono sinonimi. Nella pratica il rapporto è più complesso. Esiste una piccola pattuglia di ricchi dai consumi esuberanti e socialmente molto visibili (quelli che animano media, locali alla moda e gossip). Al di fuori di questa esiste un mondo affatto diverso. Di persone benestanti ed in alcuni casi, molto benestanti, che vivono vite più appartate, senza necessariamente apparire. Vivono una vita certamente di qualità, dal punto di vista abitativo, dei servizi a disposizione (in casa e fuori casa), dei mezzi di trasporto, delle vacanze e del tempo libero. Ma hanno spesso una caratteristica: “vivono al di sotto delle loro possibilità”. In altre parole, la virtù di un ricco è quella di non spendere quanto potrebbe. Al limite di investire: tempo, denaro, impegno nelle direzioni che si ritengono opportune, a costruire altre opportunità, altre relazioni. Da una recente ricerca qualitativa Eumetra sui ricchi abbiamo raccolto questa osservazione: “mi aspetto che la mia banca mi metta in rela- zione con persone come me, per aiutarmi a rinforzare il mio sistema di relazioni”, magari d’affari, magari solo per il piacere di conoscere persone in gamba. L’avreste messo negli obiettivi di un banker o nella brochure della vostra banca private? Comunque, il vivere al di sotto delle possibilità fornisce l’opportunità di risparmiare molto. In media la quota di risparmio può andare dal 20 al 50% del reddito, a seconda ovviamente dello stile di vita. Ma il principio resta quello: la ricchezza si alimenta, non si consuma. Anche perché chi è ricco – non importa quanto ricco – non si sente mai abbastanza ricco. La ricchezza, anche in questo senso è una “dinamica”, una pulsione, non una “statica” dell’essere (transeunte, come tutto nella vita). In questo i ricchi si differenziano dalle persone “normali”. Le persone normali (non ancora ricche) pensano alla ricchezza in forma di stato: si è ricchi se si guadagna almeno 200mila euro, oppure si ha almeno 500mila euro di risparmi o altri dettagli di questo tipo, tutti a definire un assetto statico della ricchezza, come ci ricorda la ricerca Aipb-Censis del 2019. La ricchezza è la capacità di produrre ricchezza, il resto è solo consumo della ricchezza, più o meno esibitivo.