Affondato dai debiti e dagli effetti della pandemia sul settore energetico, il gigante dello shale Chesapeake dichiara bancarotta e si appella al Chapter 11
Chesapeake Energy, l’azienda simbolo del boom dello shale, finisce in bancarotta e chiede la protezione del Chapter 11
Il caso di Chesapeake fa sorgere inevitabili preoccupazioni sull’ obbligazionario high yield statunitense, particolarmente esposto al comparto energetico
Un declino preannunciato quello di Chesapeake Energy. La società statunitense, pioniere del fracking (tecnica utilizzata per estrarre gas naturale e petrolio dalle rocce di scisto) e simbolo della rivoluzione americana dello shale, ha richiesto la protezione del Chapter 11, presentando in tribunale l’istanza di fallimento. Come ricorda Reuters, si tratta del più grande produttore oil & gas degli Stati Uniti ad aver chiesto la protezione dal fallimento negli ultimi anni. Il Chapter 11, procedura prevista dal capitolo 11 del Bankruptcy Code statunitense, consente alle imprese di avviare un piano di ristrutturazione a seguito di un grave dissesto finanziario allo scopo di proteggere creditori e proseguire l’attività dell’impresa in crisi.
Chesapeake non ha retto a fronte di un pesante indebitamento e della crisi del comparto energetico amplificatasi durante il lockdown, con il crollo dei prezzi del petrolio e del gas. Nel 2020, le azioni della società hanno perso oltre il 93% del proprio valore, con una capitalizzazione di appena 116 milioni di dollari lo scorso venerdì, un numero ben lontano dai 35 miliardi del 2008, quando la società era secondo produttore statunitense di gas naturale dopo ExxonMobil. Nell’ultimo bilancio trimestrale Chesapeake aveva riportato una perdita di 8,3 miliardi di dollari a fronte di una liquidità di soli 82 milioni.
L’azienda ha dichiarato di aver raggiunto un accordo con la maggior parte dei suoi creditori per la ristrutturazione di 7 dei 9,5 miliardi di dollari debito che gravano sul bilancio dell’azienda e che alcuni creditori si sono impegnati a sottoscrivere nuove azioni della società per circa 600 milioni di dollari. “Stiamo fondamentalmente resettando la struttura del capitale e il business di Chesapeake, per correggere la debolezza finanziaria che abbiamo ereditato e capitalizzare sulla nostra sostanziale forza operativa» ha commentato l’ad Doug Lawler.
Ma il caso di Chesapeake Energy, che si è susseguito all’avvio delle procedure per il Chapter 11 da parte del gruppo americano attivo nello shale oil Whiting Petroleum Corp. fa sorgere inevitabili preoccupazioni sull’ obbligazionario high yield statunitense, particolarmente esposto al comparto energetico. Basti pensare che, stando ai dati forniti da Refinitiv lo scorso 13 marzo, il BAML U.S. High Yield Index, che guarda alle aziende Usa che emettono titoli di debito ad alto rendimento, presenta una forte esposizione al settore energia, pari all’11,7%, (oltre il quadruplo rispetto all’S&P500 dove l’energia ha un peso di circa il 2,8%).
Stando a una recente analisi di Deloitte, il 31% degli operatori del settore shale statunitensi è “tecnicamente insolvente” in uno scenario che vede il prezzo del petrolio a quota 35 dollari al barile, mentre un altro 20% risulta in una situazione di ‘stress’. Percentuali che raggiungerebbero rispettivamente il 49 e 25% se il prezzo scendesse a 20 dollari al barile.
Chesapeake Energy, l’azienda simbolo del boom dello shale, finisce in bancarotta e chiede la protezione del Chapter 11Il caso di Chesapeake fa sorgere inevitabili preoccupazioni sull’ obbligazionario high yield statunitense, particolarmente esposto al comparto energetico
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