“Elon Musk è caduto nel più classico dei pregiudizi intorno a Bitcoin”, secondo Christian Miccoli, ceo di Conio. “Il lavoro dei miner può contribuire alla decarbonizzazione, preferendo fonti rinnovabili che altrimenti andrebbero sprecate”
E dunque l’estrazione di bitcoin diventa win-win: “il consumo generale di energia non deve essere ridotto perché direttamente correlato con il pil – dice il professore dell’Università Milano-Bicocca e ad di CheckSig Ferdinando Ametrano – se non possiamo consumare meno, dobbiamo consumare meglio”
Quanta energia può consumare un’industria?
Allora, cerchiamo di fare ordine. Secondo il Cambrigde Center for Alternative Finance il consumo annualizzato di energia di bitcoin è di circa 150 terawattora: ovvero lo 0,6% della produzione globale e lo 0,69% del consumo complessivo. Più o meno una quantità simile a quello di Malesia e Svezia.
È troppa? Quanta energia dovrebbe consumare un sistema monetario? La domanda se la sono posta i ricercatori di Harvard Business Review, in un lungo e dettagliato articolo. Ma la risposta non è così univoca e dipende dal sistema valoriale di ciascuno: chi considera bitcoin “uno schema Ponzi o uno strumento per compiere reati finanziari considererebbe ogni impiego di energia uno spreco”, chi invece investe per sfuggire alla repressione monetaria, all’inflazione o ai controlli sui capitali, molto probabilmente penserà che l’energia sia estremamente ben spesa.
Per cercare di dare una dimensione oggettiva al fenomeno, in ogni caso, secondo Hbr, è necessario sgombrare il campo da alcuni pregiudizi. Il primo: chiarire che c’è un’importante distinzione tra quanta energia consuma un sistema e quanto carbonio emette. Nel caso di Bitcoin, se il consumo è relativamente facile da stimare perché dipende dall’hashrate (cioè, la potenza di calcolo combinata totale utilizzata per estrarre le monete), le emissioni di carbonio si possono calcolare solo se si conosce il mix delle fonti energetiche utilizzate.
Il mix energetico e la ricerca di fonti efficienti (e meno costose)
Le migliori stime della geolocalizzazione della produzione di energia (da cui si può dedurre un mix energetico) provengono ancora dal Ccaf (riportati da Hrb): i dati non includono tutti i pool di mining, né sono particolarmente aggiornati, ma danno un’idea generale della questione. Dunque, si calcola che nel dicembre 2019, il 73% del consumo di energia di Bitcoin fosse a emissioni zero, in gran parte a causa dell’abbondanza di energia idroelettrica nei principali hub minerari come la Cina sud-occidentale e la Scandinavia. D’altra parte, il Ccaf ha stimato a settembre 2020 che la cifra è più vicina al 39%. Ma anche se anche vogliamo ritenere che la stima più corretta sia quest’ultima, si tratta di un valore ancora quasi doppio rispetto a quello della rete energetica Usa.
“L’attività di mining è portata avanti da agenti economicamente razionali e dunque tende a collocarsi in aree dove le riserve di energia rinnovabile sono ampie. Le maggiori farm di mining sono nei pressi dei bacini idroelettrici cinesi e canadesi o sfruttano il solare texano”, commenta Ferdinando Ametrano, docente di Bitcoin e tecnologia blockchain all’Università Milano-Bicocca e amministratore delegato di CheckSig, società di custodia bitcoin per investitori istituzionali e Hnwi
Allora, da un lato emerge che Bitcoin consuma, “ma non in maniera sproporzionata rispetto ad altre attività industriali come la produzione di banconote e monete o come l’estrazione auriferia – continua Ametrano – dall’altro che può approvvigionarsi presso fonti sottoutilizzate, come per esempio il potenziale idroelettrico non sfruttato in Cina ogni anno. La morale è che dobbiamo imparare a produrre energia in maniera pulita e non limitarne astrattamente i consumi. Al contrario essendo questi ultimi correlati positivamente con il pil, vanno incentivati. L’evidenza è che non si può consumare di meno o per lo meno non è ragionevole perché impoverisce un’economia, e quindi bisogna consumare meglio, producendo più energie rinnovabili”.
Bitcoin e lo sviluppo delle fonti rinnovabili
Bitcoin può addirittura contribuire a questo shift. Al contrario della maggior parte degli altri settori industriali quello collegato alla regina delle cripto è localizzabile ovunque e dunque rende possibile per i minatori andare dove conviene. Proprio, per esempio, nelle regioni cinesi di Sichuan e Yunnan, dove ogni anno vengono sprecate enormi quantità di energia idroelettrica rinnovabile. In queste aree, la capacità di produzione supera di gran lunga la domanda locale e la tecnologia delle batterie è lungi dall’essere sufficientemente avanzata per consentire di immagazzinare e trasportare energia da queste regioni rurali ai centri urbani che ne hanno bisogno. “Queste regioni – scrive Hrb – molto probabilmente rappresentano la più grande risorsa energetica bloccata del pianeta, e non è un caso che siano diventate il cuore del mining cinese, responsabili di quasi il 10% dell’estrazione globale di Bitcoin nella stagione secca e del 50% nella stagione umida”.
Di recente sono state iniziative come il Crypto Climate Accord – ispirato all’Accordo di Parigi sul clima – per sostenere e impegnarsi a ridurre l’impronta di carbonio di Bitcoin. E, naturalmente, poiché le opzioni rinnovabili come il solare diventano più efficienti e quindi più praticabili per l’estrazione mineraria, i minatori potrebbero avere ogni interesse a sviluppare queste tecnologie.
Ne vale la pena? Sì, se il valore sociale di Bitcoin si dimostra superiore alle risorse che consuma
C’è un altro pregiudizio da sfatare, quello dell’elevato “costo energetico per transazione” che, secondo Hrb è una metrica fuorviante. “La stragrande maggioranza del consumo di energia di Bitcoin avviene durante il processo di mining. Una volta emesse le monete, l’energia richiesta per convalidare le transazioni è minima. In quanto tale, semplicemente guardare al consumo energetico totale di Bitcoin fino ad oggi e dividerlo per il numero di transazioni non ha senso”. E questo spiega anche perché sia improbabile che si assista a una crescita incontrollata del consumo energico connesso a bitcoin tale da far aumentare di due gradi celsius la temperatura della terra, come ipotizzava un ipercitato studio del 2018. Non accadrà sia perché, come ampiamente argomentato, si tenderà sempre più a scegliere fonti rinnovabili. Sia perché il protocollo è costruito per dimezzare le fee del mining ogni quattro anni, fee che, a meno che il prezzo del Bitcoin non raddoppi ogni quattro anni (che l’economia suggerisce sia essenzialmente impossibile per qualsiasi valuta), tenderanno a zero. “Se i margini diminuiscono, l’incentivo finanziario a investire nel settore minerario diminuirà naturalmente – scrive Hbr – ma alla fine alla base di tutto c’è una domanda a cui è molto più difficile rispondere con i numeri: ne vale la pena?” Sì, se si riesce a dimostrare che il valore sociale fornito da Bitcoin vale le risorse necessarie per sostenerlo.