La ridotta presenza di donne in posizioni apicali nei servizi finanziari viene temperata dal fatto che nel risparmio gestito stanno trovando uno spazio sempre maggiore
Nel wealth e dell’asset management le donne occupano circa il 15% delle posizioni apicali, quasi cinque punti percentuali in più rispetto alla media dei servizi finanziari
Secondo Valentina Mosca di Mercer Italia, bisogna misurare promozioni, assunzioni, uscite, flussi di talenti, con una vista a ritroso nel triennio. E lavorare sulle infrastrutture
Isabella Fumagalli, responsabile della divisione private banking & wealth management di Bnl-Bnp Paribas. Paola Pietrafesa, ceo di Allianz Bank Financial Advisors. Ma anche Cinzia Tagliabue di Amundi Sgr o Gabriella Berglund di Comgest Italy. Sono solo alcune delle donne che hanno scalato i vertici del private e dell’asset management italiano, contribuendo a quell’allungo di un settore che negli ultimi anni (numeri alla mano) ha accumulato uno stacco di ben cinque punti percentuali rispetto alla media dei servizi finanziari nel suo complesso quando si parla di leadership al femminile. Complice anche la migrazione verso un modello di servizio sempre più orientato all’ascolto dei bisogni a lungo termine di una clientela non più soltanto al maschile. E che vede proprio nelle donne la sua naturale evoluzione. Anche quando si parla di consulenti finanziari.
“Il settore dei servizi finanziari, in generale, è un settore in cui la presenza femminile nella fascia apicale è più ridotta rispetto alle altre industrie”, racconta Valentina Mosca, diversity, equity and inclusion solution lead di Mercer Italia, leader globale nella consulenza e nelle soluzioni tecnologiche per lo sviluppo e l’organizzazione del capitale umano, per i servizi attuariali e previdenziali e per gli investimenti degli investitori istituzionali e delle reti di wealth management. “Le donne rappresentano infatti circa il 10% a fronte del 16% degli altri comparti industriali. Ma c’è una buona notizia. Il settore del wealth e dell’asset management, in questo scenario, registra i risultati migliori. Ci sono una serie di donne country manager di asset manager, come la Tagliabue o la Berglund, che occupano circa il 15% delle posizioni apicali con uno scatto di quasi cinque punti percentuali rispetto alla media dei servizi finanziari”.
E lo stesso vale per realtà internazionali come Lombard Odier (basti pensare ad Alberica Brivio Sforza e Manuela Maccia), JpMorgan Private Bank con Sarah Catania o Pictet Wealth Management Italy guidata da Alessandra Losito a partire dal 1° gennaio 2021. “Di conseguenza, la nota negativa della ridotta presenza di donne in posizioni apicali all’interno dei servizi finanziari viene temperata dal fatto che nel mondo del wealth e dell’asset management stanno trovando uno spazio maggiore. E, in alcuni casi, rappresentano anche un trampolino di lancio per ruoli sempre più rilevanti. Come Elena Patrizia Goitini, che è entrata in Bnl-Bnp Paribas come capo del private e, nel giro di qualche anno, ha assunto la posizione di ceo dell’intero gruppo in Italia”, ricorda Mosca.
Lo stesso vale se si guarda all’intera pipeline di talenti, continua l’esperta. In generale, nel settore dei servizi finanziari le donne rappresentano il 55% del personale impiegatizio e il 31-32% dei quadri direttivi. “Questo ci dà di che sperare. Nel senso che l’industry è in movimento e pare andare nella direzione di un buon bilanciamento. Anche perché le banche, per esempio, stanno utilizzando i Fondi di solidarietà facilitando l’uscita di alcuni ruoli executive ricoperti principalmente da uomini. Il che libera degli spazi non indifferenti per la componente femminile”, osserva Mosca.
Quanto invece alla fuga del risparmio gestito, si tratta di un settore che storicamente ha iniziato a incamminarsi sempre più verso modelli di gestione del patrimonio a tutto tondo (e non solo quello monetario) e quindi verso un modello di servizio, come anticipato in apertura, più orientato all’ascolto e alla comprensione dei bisogni a lungo termine della clientela. E in questo senso, dichiara Mosca, le donne possono fare leva su una modalità più sostenibile di lavorare nel mondo dell’investment. “Le donne sono meno aggressive sull’avere un ritorno immediato che comporta profili di rischio più elevati, sono più cautelative, ma nel lungo periodo ottengono risultati migliori. Un altro aspetto che ha aperto per loro nuovi spazi di affermazione”.
Nelle reti di consulenza, tra l’altro, i nuovi modelli di servizio affermatisi negli anni hanno reso sempre più necessaria la presenza di team diversificati, non solo dal punto di vista del genere ma anche della razza e dell’etnia. “Laddove un team di consulenza è diversificato, la performance è maggiore. Questo ce lo dicono i dati. Ma in Italia questo discorso manca ancora, specie ai livelli più alti”, incassa Mosca. “Eppure, oggi anche nelle università assistiamo a una multiculturalità particolarmente presente perché siamo alla seconda e alla terza generazione ormai naturalizzata italiana. Motivo per cui, nei prossimi 5-10 anni, il tema della razza e dell’etnia sarà un tema da tener presente e su cui lavorare”.
Il problema, continua Mosca, è che l’85% delle organizzazioni dichiara di essere attivamente impegnata sulle tematiche della rappresentatività e della parità di genere. Ma non misura. “Passare attraverso la misurazione consente di colmare il say-do gap, cioè il divario tra quello che si dichiara e quello che si fa realmente. Laddove le dichiarazioni non sono correlate a Kpi (Key performance indicators, ndr) precisi, rimangono solo buone intenzioni. E si parla di diversity washing”. Dopo l’istituzione delle quote rosa con la Legge Golfo-Mosca nel 2011, ricorda l’esperta, spesso iniziarono infatti a trovare spazio nei comitati di direzione non tanto donne di talento quanto piuttosto donne che “facessero numero senza mettere in crisi gli equilibri preesistenti”. Oggi, riconosce Mosca, la situazione sta finalmente cambiando. Da un lato per via della spinta normativa e dall’altro perché clienti, consumatori e lavoratori sono a loro volta più attenti e informati. Ma c’è ancora margine per ulteriori miglioramenti. E per sviluppare, anche nel settore del wealth e dell’asset management, corrette strategie di diversity, equity & inclusion.
“È necessario innanzitutto incardinare la strategia nei dati. Bisogna scattare una fotografia quali-quantitativa dell’organizzazione, misurare promozioni, assunzioni, uscite, flussi di talenti, con una vista a ritroso nel triennio. E lo stesso vale per il pay gap. In secondo luogo, bisogna lavorare sulle infrastrutture. Spesso, sia in fase di assunzione che di promozione (anche dei promotori) troviamo una serie di bias che non sono solo nella mentalità delle persone ma anche nel processo stesso. Basti pensare al performance management e alla segnalazione del potenziale, due criteri attraverso i quali una persona di solito viene inserita nella pipeline. Se la mia performance viene valutata solo dal mio manager potrebbe esserci un bias perché potremmo andare più o meno d’accordo, per esempio. Molte organizzazioni si stanno orientando verso modelli ibridi in cui i manager compilano le valutazioni tenendo conto anche dei feedback delle persone che lavorano col soggetto in questione. Questo consente una vista a 360°. Riducendo anche i gender bias”.
(Articolo tratto dal magazine We Wealth di maggio 2022)