Individuate due misure premiali: un esonero contributivo nella misura massima di 50mila euro annui e un trattamento di favore nelle graduatorie degli appalti
In Italia il divario retributivo di genere (inteso come la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne) è del 4,7% a fronte di una media europea del 14,1%
Lo scenario in Italia
Partiamo da un dato. In Italia il divario retributivo di genere (inteso come la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne) è del 4,7% a fronte di una media europea del 14,1%. Numeri incoraggianti, osserva Peressoni, ma che non corrispondono necessariamente a una maggiore equità di genere. “Se andiamo a vedere qual è la differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini, questa percentuale sale al 43,7% (contro una media europea del 39,3%). Un dato che prende in esame tutto il contesto: una retribuzione oraria inferiore, meno ore di lavoro retribuito e un minore tasso di occupazione. Ma non solo”.
Le novità legislative
In questo contesto, interviene Gambardella, ci sono “molti treni che viaggiano in parallelo” cercando di “portare un contributo alle pari opportunità”. Primo fra tutti la pubblicazione, nel 2021, della certificazione Iso 30415: Diversity & Inclusion che consente a qualsiasi organizzazione (pubblica, privata, no profit, indipendentemente dal settore, dall’attività o dalle dimensioni) di dimostrare il proprio impegno nella valorizzazione della diversità nell’ambiente di lavoro. Una norma internazionale che si applica al ciclo di vita della gestione delle risorse umane, alla fornitura di prodotti e servizi, alle relazioni della catena di fornitura e alle relazioni con le parti interessate esterne. Focalizzandosi su “processi HR fondamentali come la pianificazione del personale, i processi di induction, la formazione, lo sviluppo e la performance management, i piani di sviluppo e le politiche retributive”, spiega Gambardella.
Inoltre, lo scorso 3 dicembre è entrata in vigore la legge 162/2021 che ha modificato il Codice delle pari opportunità tra uomini e donne. Introducendo tre novità. “L’estensione del concetto di discriminazione, nella quale possono rientrare anche un’organizzazione o un orario di lavoro che svantaggiano determinate categorie di lavoratori; l’obbligo per le aziende con almeno 50 dipendenti di fornire biennalmente un rapporto sulla situazione che dovrà riportare anche le retribuzioni e i premi riconosciuti ai lavoratori di ambo i sessi; e l’introduzione di una certificazione di parità di genere”, racconta Peressoni. Quanto al report, aggiunge, potrà essere fornito in maniera telematica attraverso la piattaforma “Cliclavoro” ma resta da definire uno specifico applicativo e delle specifiche linee guida. “Se le aziende non effettueranno il rapporto biennale, non potranno accedere ad alcuni tipi di finanziamenti, come quelli legati al Pnrr”, avverte Peressoni. “È un’attività per la quale è bene prendersi del tempo. Ma, soprattutto, non è da assumere come un esercizio di stile o un obbligo ma come un momento di riflessione sulla propria organizzazione”. Per chi non ottempera entro il termine dei due anni, ricordiamo, vengono concessi ulteriori 60 giorni di tempo prima di far scattare le sanzioni (che oscillano tra i 516 e i 2.000 euro). Qualora invece l’ispettorato del lavoro dovesse verificare che sono stati forniti dati incompleti o mendaci, la sanzione va da 1.000 a 5.000 euro.
La certificazione
A partire dal 1° gennaio 2022, come anticipato in apertura, le aziende potranno dunque ottenere una speciale certificazione sulla parità di genere “al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità”, spiega ancora Gambardella. Al momento sono stati definiti i parametri minimi per il conseguimento della certificazione, le modalità di acquisizione e monitoraggio dei dati, quelle di coinvolgimento delle rappresentanze sindacali aziendali e dei consiglieri di parità regionali, delle città metropolitane e degli enti di area vasta, e le forme di pubblicità. Inoltre, è stato istituito un Comitato tecnico permanente sulla certificazione di genere nelle imprese presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri.
E sono state individuate due misure premiali: un esonero contributivo parziale e un trattamento di favore nelle graduatorie degli appalti. “Quanto all’esonero contributivo, si tratta di uno sconto sui contributi previdenziali a carico dell’azienda nella misura massima di 50.000 euro annui per azienda e nel limite dell’1% dei contributi”, precisa Gambardella. La norma, ricorda infine, manca però ancora dei decreti attuativi. “Il mio consiglio per le aziende è quello di non aspettare: iniziate a misurarvi per scoprire almeno a che punto siete e poi, quando arriveranno i decreti attuativi, potrete confrontarvi con quelli”, aggiunge l’esperto. Poi conclude: “È vero che la certificazione non è obbligatoria ma la reputation è più forte e chi non si certificherà lascerà aperti dei dubbi tra gli stakeholder e tra i propri dipendenti. Insomma, non è obbligatoria ma altamente consigliata”.