La recente pubblicazione da parte dell’Agenzia delle entrate della circolare n. 34/E del 20 ottobre 2022, preceduta da un’ampia finestra per gli operatori del diritto per l’invio delle proprie osservazioni e commenti e rubricata: “Disciplina fiscale dei trust ai fini della imposizione diretta e indiretta” offre lo spunto per alcune riflessioni sullo stato dell’arte della disciplina e del recepimento dell’istituto del trust nel tessuto normativo italiano.
Cos’è il trust: struttura e funzionamento
Come è noto, il trust è un istituto tipo di Common law mediante il quale un soggetto detto disponente (o, più precisamente, settlor) vanta la possibilità di segregare il proprio patrimonio personale, mediante atto inter vivos o mortis causa, destinando parte dei suoi beni al perseguimento di interessi determinati ovvero a favore di beneficiari individuati o, ancora, per il raggiungimento di uno scopo ben delimitato.
Il trust consente una scissione nei diritti vantati dal disponente su tali beni in quanto il settlor resterà titolare del diritto di proprietà sotto un profilo sostanziale, mentre la gestione e l’amministrazione dei beni “destinati in trust” (ovvero segregati in un patrimonio separato) spetta a un soggetto terzo: il trustee, che dovrà occuparsi del raggiungimento delle finalità per cui è costituito il trust.
In altri termini, questo negozio giuridico, di derivazione tradizionalmente anglo-americana, si fonda su una triangolazione nella quale l’esercizio formale delle facoltà che sono connesse alla proprietà spetta al trustee mentre il “proprietario vero e proprio” dei beni destinati in trust è il settlor.
La disciplina regolatrice del trust
Una volta delineata a grandi linee la struttura e il funzionamento essenziale del trust, si intende analizzarne la disciplina regolatrice.
Il trust non è direttamente disciplinato dal nostro ordinamento: ciononostante, si tratta di uno strumento giuridico genuino che può essere legittimamente adoperato, sempreché persegua una finalità meritevole di tutela secondo il legislatore.
Per quanto attiene la gerarchia delle fonti disciplinari, il trust è riconosciuto in Italia stante la ratifica da parte del nostro Paese della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, entrata in vigore il 1° gennaio 1992: da un punto di vista dogmatico, dunque, il trust è, a tutti gli effetti, un istituto di diritto privato integrato e riconosciuto nello stufenbau italiano ma disciplinato da una norma di diritto straniero.
Considerando che l’Italia non hai mai direttamente legiferato in tema di trust, è onere del settlor o del trustee individuare la legge straniera applicabile al proprio caso, attingendo alle disposizioni in essere nei Paesi – perlopiù di tradizione angloamericana – che abbiano legiferato in materia (laddove tale scelta non venga effettuata direttamente nell’atto costitutivo del trust si deve applicare la legge con cui il trust ha più strette connessioni). Prima della ratifica della Convenzione, gli scopi raggiunti nel mondo anglosassone con l’istituto in esame, nel nostro Paese sono stati perseguiti mediante altri similari strumenti giuridici, quali il fondo patrimoniale, il mandato senza rappresentanza, il contratto a favore del terzo e il negozio fiduciario, quest’ultimo anche nella forma della società fiduciaria.
Problema giuridico: la cornice disciplinare di riferimento del trust
Un primo problema giuridico posto in essere dall’attuale formulazione dell’istituto in commento nell’ordinamento italiano è dato, proprio, dalla cornice disciplinare di riferimento: il collegamento effettuato mediante il ricorso alla Convenzione dell’Aja rappresenta un ponte tra il sistema giuridico italiano e una disciplina straniera che viene applicata, dunque, in territorio italiano, con tutte le difficoltà che tale operazione comporta.
Mai come in tema di trust, infatti, il diritto mostra la sua dimensione terrena e il suo carattere “nazionalistico e concreto”, tutta la sua materialità e l’essere ancorato a una realtà nazionale di cui ne sublima, disciplinandoli, usi, costumi e tradizioni.
La formulazione nostrana del trust espone il disponente a una serie di difficoltà che si riscontrano, già, nel dover applicare una disciplina che linguisticamente mal si presta a una interpretazione secondo canoni ermeneutici e linguistici italiani. Tale circostanza, per ovvi motivi, conduce a ulteriore spreco di risorse nell’individuazione del professionista di fiducia in grado di confezionare il trust evitando di incappare in problematiche di conformità del trust italiano rispetto alla disciplina estera – circostanza, questa, che, peraltro, esporrebbe il settlor al rischio di dover incardinare un contenzioso presso un foro straniero.
In aggiunta a ciò, si tenga presente che, essendo regolato da una legge straniera, il trust italiano va incontro a problematiche di conformità derivanti, finanche, da una non controllata evoluzione normativa della disciplina regolatrice (di fonte straniera).
Una delle questioni che, tuttavia, paiono, almeno al momento, di maggiore interesse risiede nella totale mancanza di una disciplina regolamentare interna in materia di trust. In altri termini, se da un lato non è possibile (o non necessario, secondo il legislatore) procedere a una integrazione normativa interna della disciplina sui trust, si potrebbe, quanto meno, sopperire alle notevoli mancanze del nostro ordinamento mediante un processo di delegificazione, demandando a organi di natura amministrativa il compito di elaborare una disciplina regolamentare (avente, dunque, una posizione nella gerarchia delle fonti secondaria rispetto alle norme statali ordinarie) teleologicamente orientata a tracciare i confini pratico-applicativi di tale istituto.
La figura dell’amministratore del trust
Un ulteriore elemento di arretratezza della formulazione nostrana di questo istituto risiede, poi, senza dubbio, nell’assenza di una disciplina atta a regolamentare la figura dell’amministratore del trust. Non è prevista, infatti, una regolamentazione dei diritti e doveri del trustee né, tanto meno, un’autorità di vigilanza circa l’operato degli amministratori di un trust o, ancora, un albo di appartenenza: possono, ad oggi, essere amministratori di un trust persone fisiche e giuridiche (incluse fiduciarie, società di persone e di capitali).
Le novità della Circolare 34/E
Venendo alle concrete novità della Circolare 34/E, come è noto essa rappresenta un totale recepimento della giurisprudenza di legittimità in materia di trust – se ne deduce, dunque, che da questo punto di vista, non vi sono particolari novità da segnalare – effettuato dalle autorità fiscali.
Le principali novità introdotte dall’Agenzia fanno, invece, riferimento al riconoscimento del trust cosiddetto opaco residente ed estero, le cui modalità di tassazione sono state, finalmente, chiarite dall’Agenzia delle entrate unitamente al riconoscimento della disciplina agevolativa per i trust che rientrano nello schema della Legge 112/2016 (la cosiddetta “legge Dopo di noi”) fornendo, così, importanti chiarimenti sulle agevolazioni ed esenzioni riconosciute dal legislatore allorquando il trust sia costituito col fine ultimo di venire incontro ai bisogni di persone affette da gravi forme di disabilità.
È interessante notare come, qualche anno fa, sia stato elaborato un disegno di legge volto a introdurre un trust tutto nostrano, nelle forme dell’istituto della gestione fiduciaria: si tratta dell’atto Senato n. 1452 XVIII Legislatura.
Tale ddl riconosce espressamente, nel preambolo, l’elevato grado di diffusione del trust in Italia (che rappresenta il Paese di Civil law ove tale strumento giuridico appare maggiormente utilizzato e diffuso). Nel ddl si chiarisce come l’Italia sia uno dei pochi Paesi di Civil Law a non aver implementato un proprio trust nazionale, essendosi limitato il nostro legislatore ad adottare soluzioni “originali” come i patrimoni destinati a uno specifico affare (articoli 2447-bis e successivi del codice civile) e i vincoli di destinazione (articolo 2645-ter del codice civile). Come chiarito in Senato: “Queste innovazioni si sono rivelate di scarsa efficacia e mai competitive rispetto al trust, al punto che nell’ultima occasione il legislatore si è arreso e, volendo favorire l’istituzione di rapporti giuridici per la protezione dei disabili gravi (legge 22 giugno 2016, n.112), ha espressamente indicato il trust, così lasciando il campo alle leggi sul trust di altri Paesi” (pag. 2 del ddl).
L’obiettivo dei promotori del disegno di legge in tema di gestione fiduciaria è quello di rievocare le ancestrali radici canonico-civilistiche dell’istituto del trust il quale, a ben vedere, sebbene nato in contesti di Common law, attinge alla tradizione giuridico-culturale degli ordinamenti tipici di Civil law.
In altre parole, la fisionomia di un “futuro trust italiano” non apparirebbe alla stregua di una “traduzione” del trust estero “in formato italiano” e costituirebbe, al contrario, un unicum nel panorama privatistico europeo (accanto a quanto già fatto dalla Repubblica di San Marino): si tratterebbe di un istituto che non solo si sposa perfettamente con le disposizioni civilistiche italiane ma che, addirittura, ne condivide origini, forme e meccanismi pratici di funzionamento. Ben sintetizza tale concetto il ddl affermando che “una legge sul contratto di affidamento fiduciario sarebbe l’occasione per l’Italia di proporsi quale guida a numerosi Paesi di civil law che intendono «avere il trust», ma vogliono rimare all’interno della propria tradizione giuridica, e di tornare a essere esportatrice e non più solo importatrice di innovazione legislativa”.
Volendo chiosare sul tema del trust interno, si potrebbe affermare che semmai i lavori preparatori a tale norma riprendessero (sono infatti fermi dal 2020) l’Italia potrebbe imporsi quale corifeo trai Paesi di Civil law nei processi di elaborazione comparatista dei trust nazionali: in definitiva, non sarebbe necessario “forzare” l’introduzione a livello nazionale di un istituto che è, come noto, figlio e frutto di esigenze giuridiche tutte materiali e nazionalistiche, ma si potrebbe elaborare un negozio giuridico che, in quanto derivato della medesima tradizione culturale di tutti gli altri istituti di diritto privato regolati dal nostrano codice civile, ben potrebbe incasellarsi nel tessuto normativo italiano, senza creare difficoltà ad interprete e operatore del diritto!
Volendo tirare le somme circa questo primo, timido tentativo delle autorità amministrative di regolamentare il funzionamento del trust – quanto meno sotto il profilo strettamente tributario – non può farsi a meno di evidenziare come il primario intervento del legislatore in tema di trust dovrebbe avvenire sul fronte della stessa codificazione civilistica dell’istituto che, lungi dall’essere effettuato mediante il rinvio a fonti secondarie del diritto ovvero a fonti di diritto estere (per quanto riconosciute in Italia), dovrebbe avvenire per il tramite di una legge statale ordinaria che si occupi di dare i natali a un trust nazionale che, sulla falsa riga di quanto sta accadendo, al momento, in Svizzera, si occupi di chiarire i contorni dell’istituto, le sue modalità di funzionamento e i suoi limiti normativi. In altri termini, i tentativi dell’Agenzia delle entrate di definire i contorni di tale istituto – sotto il solo profilo tributario – assurgono a vera e propria iconoclastia del trust che si presenta come una chimera agli occhi di un attento interprete che dovrebbe comprendere come tale interpretazione dell’erario, per quanto utile, non risulta affatto sufficiente a sopperire alle lacune (in senso tecnico) esistenti nel nostro ordinamento in materia di trust.