Si tratta di una tesi che, peraltro, trova sponda nei paesi “virtuosi” dell’Unione europea (come l’Olanda), che ritengono l’imposta uno strumento dei paesi “viziosi” (Francia, Italia e Spagna) per risollevare (almeno in parte) le sorti del proprio debito pubblico: insomma, un modo (anche alquanto complicato) per fare cassa, con il rischio, però, di subire ritorsioni da parte degli Stati Uniti nell’ambito degli scambi commerciali.
Non è comunque un’imposta che possa essere ignorata dagli operatori domestici o degli altri paesi, sempre che si tratti di soggetti di rilevanti dimensioni.
I contribuenti interessati devono infatti aver realizzato nel 2020 (ovunque nel mondo, singolarmente o a livello di gruppo) un ammontare di ricavi almeno pari a 750 milioni di euro – si noti, però, che rilevano anche quei ricavi che nulla hanno a che vedere con il digitale (per intenderci, vale anche la vendita di biscotti); inoltre, devono aver incassato in Italia nello stesso periodo un ammontare di ricavi da servizi digitali almeno pari a 5 milioni e mezzo di euro (in Francia occorre invece superare il limite ben più alto di 25 milioni di euro).
I servizi tassabili sono tre: la veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia (un esempio per capirci: navigo sul sito di un giornale e compare una pubblicità di scarpe perché poco prima ho navigato sul sito di quelle scarpe); la messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi (sempre per capirci: vendo una macchina fotografica usata su un sito di vendite a un altro utente iscritto al relativo sito – quel sito lucra una commissione, sulla quale si applica la nuova imposta); infine, la trasmissione di dati raccolti da utenti e generati da un’interfaccia digitale (sul “commercio” di dati consensualmente forniti in rete dagli utenti non credo servano esempi).
Un cenno alle scadenze (già slittate rispetto al termine originario): il versamento entro il 16 marzo, e la dichiarazione entro il 30 aprile prossimi.
Alcuni degli scogli maggiori: l’imposta è applicabile laddove il provento sia riscosso in Italia, ovvero, semplificando, laddove i servizi siano fruiti mediante un dispositivo (ad esempio, uno smartphone) localizzato nel territorio italiano. A tal proposito fa fede l’indirizzo di protocollo internet (Ip) o, in mancanza di questo indirizzo, altri metodi di geolocalizzazione.
Ma l’Ip è facilmente eludibile (è sufficiente una Vpn) e i metodi di geolocalizzazione sono quasi una tautologia (la regola suona pressappoco così: il contribuente è geolocalizzato attraverso altri metodi di geolocalizzazione).
Non solo, tassare la veicolazione di pubblicità mirata comporta molteplici questioni: occorre innanzitutto definire quando l’internauta sia “preso di mira” e quando no, quando la veicolazione sia intermediata e da chi (con il rischio, più che teorico, di molteplici tassazioni dello stesso ricavo).
Sono solo alcuni esempi tratti da una lunga lista (la consultazione pubblica ha certamente aiutato a farli emergere); la buona notizia, forse, è che l’imposta è destinata a sparire (per previsione normativa), una volta raggiunto l’accordo a livello internazionale in materia di tassazione dell’economia digitale (accordo che, per inciso, richiede il consenso, soprattutto, degli americani).