Per reperire capitali freschi o trovare nuovi soci, le imprese non quotate hanno a disposizione anche private equity e venture capital. Che hanno prodotto, nel 2019, investimenti complessivi per 7,2 miliardi di euro distribuiti su 370 operazioni (secondo PwC Deals e Aifi). L’obiettivo è comune: partecipare al percorso di sviluppo, con finanziamenti e servizi, di imprese promettenti per aumentarne il valore (e incassare una plusvalenza), ma private equity e venture capital non sono strumenti intercambiabili. Hanno, innanzitutto, target diversi. Il private equity è appannaggio di società mature e con un fatturato da 70 a 250 milioni; il venture capital si rivolge invece a startup e pmi innovative, con ricavi bassi o anche pari a zero. Del resto in quest’ultimo caso, i fondi non si focalizzano sui conti. “Guardiamo moltissimo all’idea, alla soluzione proposta, agli elementi di validazione, alla qualità degli imprenditori proponenti”, afferma Gianluca Dettori, fondatore di Primomiglio sgr e presidente di VC Hub, l’associazione italiana degli investitori in innovazione. Diverse sono le motivazioni che spingono le aziende a far entrare un private equity nel capitale. “Si distinguono il desiderio di accelerare la crescita con capitali e competenze, la volontà di razionalizzazione l’azionariato o la necessità di un passaggio generazionale. Per chi investe sono fondamentali le prospettive di crescita dimensionale e reddituale, il management o la possibilità di potere trovare competenze per quel settore specifico e l’exit dall’investimento”, spiega Roberto Del Giudice, senior partner di Fondo italiano d’investimento sgr (Fii sgr), nato oltre 10 anni fa su iniziativa del Ministero del Tesoro, che investe sempre più a braccetto con altri private equity. Il venture capital invece interviene in “fase di sviluppo del prodotto o di scalabilità del business dell’azienda”, precisa Dettori.
Gli fa eco Daniele Camponeschi, cofondatore e chief investment officer di Green Arrow Capital: “Non siamo trader. Noi aiutiamo l’azienda a crescere”. Ecco perché riescono a spuntare rendimenti a doppia cifra: secondo Kpmg e AIFI, private equity e venture capital hanno incassato un Irr del 21,3% nel 2019. “I fondi di Primomiglio si pongono obiettivi del 12-15% netto in 10 anni”, rivela Dettori. Luca Rancilio, fondatore del family office Rancilio Cube, che investe in società innovative italiane ed estere (quali Treedom, Cour- sera, Deliveroo, N26, Casavo), ammette: “Nel venture capital, i rendimenti sono a doppia cifra, in positivo o negativo. Sono investimenti molto rischiosi, visto che si sta puntando su innovazione e novità, ma se il sottostante è forte, si mitiga il rischio”. Non va poi dimenticato che nel private equity, “spesso l’imprenditore reinveste a fianco del fondo, per cui è allineato sull’extra performance”, ricorda Camponeschi. Il venture capital ha un orizzonte di investimento più lungo del private equity: si aggira sui 5-8 anni. “I nostri fondi tipicamente hanno una durata di 10 anni: 5 di investimento, 5 di liquidazione, con performance positive dal settimo anno in poi”, racconta Dettori. I vantaggi di private equity e venture capital sono la possibilità di ottenere capitali e competenze per crescere, senza bisogno di prestare garanzie o pagare interessi. “Per una startup, avere gli investitori giusti nella captable permette di dare solidità”, sostiene Rancilio. Per un’azienda matura, l’ingresso di un private equity significa una maggiore managerializzazione. “Spesso appena entriamo nel capi
tale di un’azienda, individuiamo i manager più adatti a guidarla, che solitamente le aziende padronali hanno maggiori difficoltà ad attirare”, dice Camponeschi. Inoltre interagendo con il fondo, l’azienda si abitua progressivamente a “rafforzare le sue capacità di programmazione e controllo, nonché a rendicontare periodicamente i risultati raggiunti, avvicinandosi progressivamente alle logiche e alle regole dei mercati finanziari. Infine, aumenta la sensibilità alla sostenibilità, sempre più parametro di valutazione dell’investimento”, segnala del Giudice. Lo svantaggio è che a fronte dei capitali e delle competenze fornite, il fondo di venture capital o private equity chiede una maggiore trasparenza, partecipazione alla governance e disciplina. “Si tratta di un costo di natura diciamo psicologica, che rappresenta spesso l’ostacolo più arduo da superare (soprattutto se l’azienda è di tipo familiare”, precisa il senior partner di Fii sgr. Rancilio aggiunge: “La stagione del tutto mio, forse è finita da un pezzo”. Per Dettori, far entrare un nuovo socio è “una scelta di vita: pensate a Marchetti, che ha costruito un’azienda da 7 miliardi di capitalizzazione con il venture capital e tuttora guida Ynap con il 2% delle azioni”. Per quanto riguarda i costi, a esito dell’ingresso di un fondo di private equity, l’azienda non paga costi fissi, ma variabili, in base alla sua valorizzazione. “Se l’azienda apre un’asta per trovare un nuovo socio, dovrà pagare i consulenti finanziari, fiscali e legali associati all’operazione, che hanno un peso non significativo: lo 0,5-1% del valore dell’operazione. Se invece la società è approcciata dal fondo, dovrà sostenere solo il costo del suo commercialista, che fungerà da consulente”, chiarisce Camponeschi. Nel caso di una startup, i costi si riferiscono al tempo dedicato all’organizzazione del round.