Con il crollo del bitcoin, osservato a partire dalla terza settimana di maggio, è diventato chiaro che il calcolo costi-benefici può ribaltarsi facilmente
La stretta di Pechino sui miner potrebbe rafforzare il trend in atto
L’inefficienza energetica del bitcoin è scritta nel suo Dna e non può essere corretta, ha fatto notare Cambridge sul suo sito. Da un lato, la blockchain chiede ai membri della rete di verificare, con metodo democratico, l’aggiornamento della catena. Dall’altro, la difficoltà di calcolo necessaria a completare il mining assicura che nessun attore, singolo o di gruppo, possa unirsi per violare il registro della blockchain a suo vantaggio. La sicurezza di questo sistema, che finora non è mai stato alterato, sta proprio nella sua “inefficienza”. Questo, fino ad oggi, ha spinto i miner a orientare la propria attività là dove l’energia elettrica era più a buon mercato. Secondo gli ultimi dati aggiornati del Cambridge centre for alternative finance, oltre il 65% del mining avviene in Cina, un Paese il cui approvvigionamento energetico deriva in larga parte da combustibili fossili. L’Agenzia internazionale dell’energia ha calcolato che, nel 2019, oltre il 60% dell’energia cinese è stata prodotta dal carbone.
La Cina, però, non sarà più un Paese per miner. Diverse province, fra cui la Mongolia interna, il Sichuan e lo Yunnan hanno deciso di mettere al bando questo genere di attività, dando seguito a un orientamento politico che dallo scorso maggio ha, di fatto, dichiarato guerra alle criptovalute. La banca centrale cinese, infatti, ha contribuito in modo determinate al crollo del bitcoin decretando l’illegalità delle transazioni in criptovalute. Il 21 giugno, poi, la stessa Pboc ha intimato la società di pagamenti Alipay e alcune altre banche a uniformarsi all’invito di non offrire più alcun servizio basato su asset crittografici. Nello stesso giorno, il giornale controllato dal partito Comunista cinese, il Global Times, ha dichiarato che oltre il 90% della capacità di mining del Paese andrà incontro a una chiusura forzata.
Il risultato di questa stretta sui minatori non è ancora visibile nei dati del Cambridge centre for alternative finance. Una parte del mining cinese, secondo alcuni rapporti dei media americani, sarebbe pronto a trasferirsi in Texas. Comunque andrà, la chiusura della Cina al mining non potrà che ridurre l’impronta del Bitcoin sull’ambiente.