Visual Capitalist ha fatto il punto sul dispendio energetico richiesto per produrre bitcoin: 129 terawattora (TWh) all’anno. Poco di più di quanto consuma l’intera Norvegia
Le energie rinnovabili rappresentano il 39% del consumo totale di energia del cryptomining. Le fonti di energia più utilizzate sono carbone ed energia idroelettrica
Quanta energia richiede la produzione di Bitcoin?
Visual Capitalist ha fornito una risposta puntuale a questa domanda: 129 terawattora (TWh) all’anno. Tanto? Si. Utilizzando i dati del Bitcoin Electricity Consumption Index (CBECI) dell’Università di Cambridge, il sito di informazione economico-finanziaria, ha confrontato il consumo di energia di bitcoin con quelle di importanti aziende e addirittura interi paesi. Se il bitcoin fosse una nazione, si posizionerebbe al 29°posto (su 196), per consumo energetico, superando di poco quello norvegese, ma lontano dai consumi monstre di Cina (6543 TWh) e Stati Uniti (3.989 TWh). Se fosse un’azienda invece sarebbe per distacco quella più famelica d’energia, consumando il 1708% in più di elettricità rispetto a Google. Tutti i data center del mondo consumano “solo” il 39% di energia in più: insieme, bitcoin e data center, rappresentano oltre 2 mila miliardi di gigabyte di spazio di archiviazione.
Perché l’estrazione di bitcoin richiede così tanta energia?
Ogni volta che si “estrae” un bitcoin, si aggiorna il libro mastro delle transazioni Bitcoin anche noto come blockchain. Per fare questo il miner deve risolvere enigmi numerici che hanno una soluzione esadecimale a 64 cifre nota come hash. I minatori possono essere ricompensati con bitcoin, ma solo se arrivano alla soluzione prima degli altri. È per questo motivo che le strutture minerarie di Bitcoin – magazzini pieni di computer – sono spuntate in tutto il mondo. Queste strutture consentono ai minatori di aumentare il loro hashrate, noto anche come numero di hash prodotti ogni secondo. Un hashrate più elevato richiede maggiori quantità di elettricità e in alcuni casi può persino sovraccaricare l’infrastruttura locale.
Da dove proviene tutta quest’energia?
In un rapporto del 2020 dell’Università di Cambridge, i ricercatori hanno scoperto che il 76% dei cryptominer fa affidamento su un certo grado di energia rinnovabile per alimentare le proprie operazioni. C’è ancora spazio per miglioramenti poiché le energie rinnovabili rappresentano solo il 39% del consumo totale di energia del cryptomining. L’energia più utilizzata a livello globale è quella idroelettrica che viene utilizzata, almeno in parte, dal 60% dei cryptominer. Altri tipi di energia pulita come l’eolico e il solare sembrano essere meno popolari. L’energia del carbone gioca un ruolo significativo nella regione Asia-Pacifico ed è l’unica fonte che eguaglia l’energia idroelettrica in termini di utilizzo.
Un interesse che non accenna a fermarsi
Al netto del discorso energetico e del relativo impatto ambientale, comunque il bitcoin, e più in generale le criptovalute, sono un asset che continua ad interessare molto gli investitori e non solo. Il traffico su internet ne è una dimostrazione. Invezz.com ha analizzato proprio questi dati perché capire da quali paesi proviene l’interesse maggiore. Gli Stati Uniti guidano questa classifica, con un’incredibile cifra di 2.556.000 ricerche online sulla criptovaluta ogni anno, ovvero 7.003 ricerche online al giorno. Al secondo posto c’è l’India, con 804.000 ricerche online (il 69% rispetto agli Stati Uniti) e al terzo il Regno Unito con una media di 648.000 ricerche online sulla criptovalute ogni anno. Seguono Indonesia (324.000), Canada (300.000), Vietnam (276.000) e Australia (273.000). L’Italia si posiziona al 23°posto.