I fondi globali legati ai principi ambientali, sociali e di governance hanno assorbito quasi 350 miliardi di dollari l’anno scorso
L’indice S&P Global Clean Energy è quasi raddoppiato nell’ultimo anno, Il prezzo medio delle società quotate è di 41 volte gli utili
Secondo Francesco Bicciato, Segretario Generale del Forum per la Finanza Sostenibile, ci sono tre argomenti per affermare che il green non è una bolla
Numeri da bolla verde
L’investimento nell’energia pulita al servizio di un ambiente meno sofferente non è esente dalla mania speculativa delle folle. Anzi. A fare scattare il campanello di allarme è un articolo del Financial Times. In un’intervista al quotidiano britannico Gordon Johnson, amministratore delegato di GLJ Research, ha cosi dichiarato: “Penso che siamo al 100% in una bolla verde: gli utili di quasi tutte le società solari che copro sono peggiorati, mentre il loro prezzo è più che triplicato”. Secondo i dati di Bloomberg, l’indice S&P Global Clean Energy, che replica il prezzo delle azioni di 30 società, è quasi raddoppiato nell’ultimo anno, con prezzo medio di 41 volte gli utili. Nello stesso periodo le azioni blue chip statunitensi sono aumentate di circa il 16% nell’ultimo anno e sono valutate 23 volte gli utili. Anche Morgan Stanley ha rilevato la stessa dinamica: i multipli prezzo/utili delle società verdi nell’ultimo anno sono aumentati di 24, rispetto ai soli due punti dei settori “peer”.
I tre motivi per cui il green non è una bolla
Tuttavia, per Francesco Bicciato Segretario Generale del Forum per la Finanza Sostenibile, non è corretto parlare di bolla. Per tre motivi. “Anzitutto, il settore si sta già dotando degli anticorpi necessari a contrastare il greenwashing e favorire la trasparenza. Per esempio, in Europa è stato introdotto un regolamento sulla disclosure delle informazioni di sostenibilità nel settore dei servizi finanziari. A operatori e consulenti è richiesto di divulgare informazioni sull’integrazione dei rischi esg e sugli impatti ambientali e sociali, in relazione sia alle politiche di investimento, sia alle strategie dei singoli prodotti” spiega Bicciato che sottolinea come il regolamento, inoltre, distingua chiaramente tra prodotti che non integrano temi esg, prodotti che promuovono temi di sostenibilità ambientale e sociale (o “light green”) e prodotti che hanno come obiettivo investimenti sostenibili (o “dark green”), proprio allo scopo di ottenere maggiore trasparenza e armonizzazione. “Il secondo motivo è che tra gli investitori cresce sempre più la propensione a valutare la performance dei prodotti di finanza sostenibile in termini di impatto socio-ambientale positivo. In altre parole, il mercato non si limita più a chiedere che i portafogli evitino settori o emittenti che arrecano danni ai fattori esg. L’obiettivo è sempre più quello di fornire un contributo sostanziale alla soluzione delle sfide ambientali e sociali”. Infine, il terzo elemento è la solidità di queste aziende. “Gli emittenti che presentano rating esg più elevati tendono a dimostrarsi più solidi anche nel lungo periodo e durante le fasi di crisi. L’abbiamo riscontrato durante la volatilità dei mercati che ha caratterizzato le prime settimane dell’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia di COVID-19: i prodotti finanziari con credenziali esg più elevate hanno registrato perdite più contenute rispetto a quelli che non integrano criteri di sostenibilita”.