Un recente report pubblicato dall’Ocse (Taxing virtual currencies: an overview of tax treatments and emerging tax policy issues, 2020 p. 23) ha messo a nudo le persistenti incertezze evidenziando la mancanza di uniformità per quanto riguarda la qualificazione giuridica e il trattamento fiscale delle criptovalute.
Lo stato dell’arte in ambito internazionale
Sul piano internazionale, la posizione prevalente parrebbe prevedere l’assimilazione della criptovaluta ai mezzi di scambio, in aderenza alla direttiva 2018/843/Ue del 30 maggio 2018 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, che modifica le direttive 2009/138/Ce e 2013/36/Ue. Senza dimenticare la posizione della Corte di Giustizia che ha definito le criptovalute come mezzi di pagamento e ha qualificato l’attività di cambio di valuta virtuale come prestazione di servizi a titolo oneroso esente da Iva.
La posizione del fisco italiano rispetto alla qualificazione delle criptovalute
L’amministrazione finanziaria italiana con la risoluzione n. 72/e del 2 settembre 2016 ha assimilato le criptovalute (nel caso di specie, bitcoin) a una tipologia di moneta virtuale utilizzata come alternativa alla moneta tradizionale (avente corso legale ed emessa da una autorità monetaria), la cui circolazione si fonda su un principio di accettazione nel contesto internazionale. Tale conclusione non è immune da critiche e in ogni caso appare isolata rispetto ai trend internazionali che qualificano la criptovaluta a un mezzo di scambio.
Perché la qualificazione giuridica delle criptovaluta assume rilievo ai fini fiscali?
La qualificazione giuridica delle criptovalute influenza il regime fiscale dei trasferimenti di criptovalute applicabile, ad esempio, ai plusvalori derivanti dal realizzo. Un numero significativo di ordinamenti, tra cui quello italiano, fa infatti discendere effetti differenti sul piano impositivo a seconda della natura del soggetto che trasferisce la criptovaluta (ad esempio, cedente persona fisica o soggetto che esercita un’attività professionale o di impresa). In Italia, ad esempio, alle cessioni a pronti di valuta virtuale effettuate da persone fisiche non imprenditori trova applicazione la disciplina relativa alle cessioni di valuta estera. La cessione di criptovalute determina pertanto l’emersione di plusvalori da realizzo imponibili solo quando la valuta ceduta derivi da prelievi da portafogli elettronici (wallet), per i quali la giacenza media superi un controvalore di euro 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta. Per le valute virtuali detenute all’estero sussistono inoltre gli obblighi di monitoraggio di cui all’art. 4 del d.l. 167/1990. Tali obblighi sono stati di recente confermati anche da una sentenza del Tar Lazio (sentenza 27 gennaio 2020, n. 1077) e prima di questa dall’Agenzia delle Entrate nella risposta all’interpello 956-39 del 2018. Ne sono esclusi i casi nei quali le chiavi crittografiche siano detenute presso intermediari residenti o su dispositivi fisici gestiti dal titolare (es. paper wallet).
Per i soggetti neo-residenti sussiste la possibilità di far rientrare le plusvalenze nel regime della cosiddetta flat tax?
L’applicabilità del regime dei neo residenti sostitutiva solleva il tema della territorialità delle plusvalenze derivanti dal realizzo di criptovalute. In virtù di quanto sopra, per determinare la fonte del reddito dovrebbe probabilmente mutuarsi la regola di territorialità delle cessioni di tali beni, che considera rilevante il luogo in cui si trova il deposito o conto corrente. Per le criptovalute si dovrebbe fare riferimento al luogo in cui è detenuto il wallet. La plusvalenza da realizzo dovrebbe rientrare nei redditi di fonte estera assoggettati all’imposizione sostitutiva nel caso di wallet detenuto fisicamente all’estero oppure online laddove l’intermediario sia residente all’estero. Viceversa, se l’intermediario fosse residente in Italia o il wallet fosse fisicamente in Italia il reddito dovrà considerarsi di fonte italiana.
Rischi o criticità sotto il profilo della disciplina antiriciclaggio
Occorre partire dal presupposto che l’utilizzo delle criptovalute è un fenomeno difficilmente controllabile dalle autorità nazionali. Basti pensare ai casi in cui le criptovalute sono trasferite fuori dai circuiti regolamentati, ad esempio tramite il mero trasferimento del wallet fisico che le contiene, o mediante intermediari stabiliti in giurisdizioni che hanno obblighi di identificazione ridotti dei propri utenti. In Italia, un primo approccio al tema da parte del legislatore italiano si è avuto con il D.lgs. n. 90 del 25 maggio 2017 – che ha recepito la IV direttiva Antiriciclaggio 2015/849, modificando la disciplina antiriciclaggio (D.lgs. n. 231 del 2007) includendovi una definizione di valuta virtuale. Un ulteriore passo in avanti è stato fatto con il D.lgs. n. 125 del 4 ottobre 2019 che, recependo la V direttiva Antiriciclaggio, ha ampliato la definizione sopra richiamata al fine di ricomprendervi sia sul piano dei soggetti obbligati all’adempimento degli obblighi antiriciclaggio, sia su quello delle fattispecie rilevanti, la più ampia casistica possibile tenendo conto della continua evoluzione del fenomeno.
(Articolo scritto in collaborazione con Mario Tenore, Pirola Pennuto Zei & Associati)