La questione è nota ormai da anni, come sanno bene tutti i collezionisti di Mario Schifano, grande artista pop, che è riuscito nell’impresa di creare scompiglio anche dopo la sua morte; l’artista amava rompere gli schemi e far parlare di sé e ancora una volta è riuscito nel suo intento. In questo caso, la vicenda trae origine dal contenzioso azionato dai suoi eredi contro l’omonima fondazione a cui era stato conferito il compito di conservare e tutelare le sue opere; opere che sono non poche, visto che il padre della pop art italiana, quando era in vena, riusciva a dipingere quasi dieci quadri al giorno.
Ebbene, a (provare a) mettere la parola fine all’annosa questione dell’attribuzione della paternità delle opere e dello sfruttamento dei relativi diritti, ci ha pensato la Corte di Cassazione con la recentissima Ordinanza n. 4038/2022 che ha segnato un punto fermo nella causa che vede contrapposti l’Archivio Mario Schifano da un lato e la Fondazione M.S. Multistudio dall’altro.
I supremi giudici, dopo un complesso e articolato ragionamento, che su questo punto ha ribaltato la precedente sentenza della Corte di Appello di Milano, hanno stabilito che la riproduzione delle opere pubblicate nello studio di catalogazione informatica presso la Fondazione M.S., costituisce una lesione dei diritti patrimoniali, che spettano – in via esclusiva – agli eredi dell’artista. La pronuncia, per gli operatori del diritto, è di particolare interesse, oltre che per l’importanza del personaggio coinvolto, perché estende alle opere di arte figurativa una normativa sino ad oggi applicabile alle sole opere dell’ingegno.
La legge in materia infatti prevede che la riproduzione “integrale” delle opere d’arte non può essere oggetto di altrui libera utilizzazione e che la riproduzione fotografica di opere protette si pone in conflitto con i diritti di sfruttamento che competono ai legittimi titolari. Sin qui nulla di nuovo, o quasi, ma, proseguono i giudici, vi è un’eccezione a questa regola, perché è ammessa la riproduzione che sia strumentale alla critica, alla discussione, all’insegnamento e alla ricerca scientifica. Si tratta di un limite analogo a quello operante ex art. 70 Legge n. 633/1941, rispetto al quale la Cassazione ha già precisato che la libertà di utilizzazione è giustificata dalla circostanza che il diritto di critica, di discussione o di insegnamento ha finalità autonome e distinte da quelli dell’opera in questione, i cui “frammenti” (quindi solo piccole parti dell’opera e non l’intera opera) non ledono i diritti di utilizzazione economica spettanti all’autore (Cass. Civ., sez. I, 07.03.1997, n. 2089).
Anche in questo caso, però, deve essere chiaro che queste pur nobili e importanti finalità devono rispettare le possibilità di utilizzazione economica dell’opera stessa, perché non potranno mai andare a intaccare gli interessi di chi su quell’opera vanta dei diritti. Gli Ermellini quindi, pur rispettando e riconoscendo l’importanza di diritti di rango costituzionale, quali appunto il diritto di critica, di discussione o di insegnamento, hanno badato “al sodo” e non hanno potuto non riconoscere che, anche nell’arte, l’aspetto economico non può essere trascurato. Così facendo hanno disconosciuto il ragionamento fatto dai Giudici di appello, che avevano omesso di considerare che il legittimo sfruttamento che compete all’autore, ai sensi dell’art. 13 della Legge n. 633/1941, comprende non solo il diritto di creare copie identiche all’originale, ma protegge anche l’utilizzazione economica, che l’autore può effettuare mediante qualsiasi modalità di riproduzione (Cass. Civ., sez. I, 19.12.1996, n. 11343).
Ne discende, dunque, che la riproduzione fotografica, in scala, di opere protette è idonea a porsi in concorrenza con i diritti di sfruttamento dell’opera stessa, con buona pace di molti collezionisti e per la gioia di altri.