Con la recente Risposta a Interpello n. 437/2022, l’Agenzia delle entrate è tornata a pronunciarsi in tema di trattamento fiscale delle criptocurrency offrendo interessanti spunti di riflessione, utili a ricostruire il mosaico normativo della tassazione di tali moderni strumenti finanziari e introducendo indirettamente tematiche di natura regolamentare.
Secondo i più recenti sviluppi di prassi della nostra autorità fiscale, lo si ricorda, le criptovalute sono (ancora) equiparate, dal punto di vista tributario, a delle comuni valute estere: se ne deduce che i principi tributari adoperati sono i medesimi. È questo un trend che caratterizza quasi solo il sistema fiscale italiano: nella maggior parte degli ordinamenti – sia europei che extra Ue – infatti, le criptovalute sono equiparate a degli asset finanziari.
Prima di procedere con l’analisi del documento di prassi in commento, si ricorda che l’Agenzia si era già pronunciata, alcuni giorni prima, con la risposta n. 433/2022 (risalente, per l’appunto, al mese di agosto del 2022) circa la tassazione dei proventi dalle attività di staking. A ben vedere, come precisato dallo stesso ufficio interpellato, la risposta n. 437 (in commento) viene pubblicata in rettifica del contenuto della risposta n. 433 del 24.08.2022, con riferimento al trattamento ai fini della ritenuta fiscale da applicare ai proventi.
Il quesito affrontato dalle autorità, come precisato, si riferisce al trattamento fiscale dei proventi derivanti da attività di staking e all’obbligo di segnalazione di tali attività finanziarie nel quadro Rw della dichiarazione con conseguente obbligo di versamento dell’Ivafe.
Cosa si intende con staking
Con il termine staking si fa riferimento a quel periodo di tempo, retribuito anch’esso in criptovalute, nel quale le criptovalute possedute dall’investitore nel proprio wallet vengono rese dalla piattaforma “indisponibili”, poiché utilizzate come stake nell’esecuzione delle operazioni di validazione/convalida necessarie alla generazione di nuovi blocchi.
In sostanza, i wallet in cripto sono considerati equivalenti a depositi in “valuta estera” è lo staking equivale ad un “conto deposito”, vincolato e remunerato.
Seguendo tale impostazione, la remunerazione del deposito vincolato delle criptovalute genera, secondo l’Agenzia, un reddito di capitale, in forza del disposto di cui all’art. 44, comma 1, lettera h) del Tuir (tale conclusione era già stata espressa nella Risposta 433).
Afferma, quindi, l’Agenzia che le remunerazioni in criptovaluta, percepite da persone fisiche al di fuori dell’attività di impresa, derivanti da attività di tal tipo sono soggette ad una ritenuta a titolo d’acconto nella misura del 26% ai sensi dell’art. 26, comma 5, del d.P.R. 600/1973.
Cambio di rotta dell’Agenzia sulle criptovalute
Il cambio di rotta dell’Agenzia operato con la risposta 437 appare lieve ma cruciale: infatti, mentre in precedenza, con la risposta 433, l’Ufficio aveva confermato la possibilità di operare una ritenuta alla fonte a titolo di imposta (sempre nella misura del 26%), con l’ultimo documento di prassi le autorità si sono orientate verso un tipo di prelievo alla fonte avente, tuttavia, il carattere di un acconto sulle imposte complessive dovute (la ritenuta perde, dunque, il carattere della “definitività”) determinando, altresì, per il contribuente l’obbligo di indicazione di tali proventi nella sezione I-A “redditi di capitale” del quadro Rl del Modello Unico e quindi a maggiori adempimenti dichiarativi.
Necessità di ulteriori chiarimenti
La posizione assunta dall’Agenzia sul tema necessita, certamente, di ulteriori chiarimenti, anche alla luce dei recenti sviluppi comunitari: parrebbe, infatti, che l’Agenzia, con questa risposta, abbia equiparato gli investimenti effettuati da soggetti residenti a quelli di soggetti non residenti, estendendo ai primi il medesimo regime fiscale previsto per i secondi (i non residenti), determinando, cioè, l’insorgenza di un prelievo alla fonte privo dei caratteri della definitività.
In altri termini, non vi sarebbero differenze di trattamento fiscale tra i residenti che investono in Italia e i soggetti che investono per il tramite di intermediari fiscalmente residenti all’estero.
Obblighi di monitoraggio fiscale
Venendo, ora, agli obblighi di monitoraggio fiscale, viene consolidata la posizione secondo cui le persone fisiche che detengono investimenti e/o attività finanziarie all’estero idonee a produrre redditi in Italia devono indicarli nella dichiarazione, mediante compilazione dell’apposito quadro Rw: tale disciplina si applica anche agli investimenti esteri in criptovalute. Al contrario, allorquando le attività finanziarie siano detenute in Italia – o nel caso di criptocurrencies il wallet sia costituito presso una società italiana – i contribuenti non sono tenuti all’adempimento di alcun obbligo di monitoraggio fiscale.
Il registro ufficiale degli operatori di criptovalute
Un altro aspetto che l’Agenzia fa emergere ma non affronta (in quanto non di sua competenza) nella risposta 437, è l’inquadramento degli operatori in criptovalute nell’universo degli intermediari finanziari (in particolare le banche per quanto riguarda la raccolta del risparmio e le Sim/Sgr per quanto riguarda i servizi di investimento); un primo tentativo è quello del Registro ufficiale degli operatori di criptovaluta, operante presso l’Organismo degli agenti e dei mediatori (Oam) operativo dal 18 maggio.
Al Registro si devono iscrivere:
(i) prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale
(ii)i prestatori di servizi di portafoglio digitale.
È sicuramente un primo passo, ma quello che ad oggi la normativa non chiarisce sono i “confini” dell’attività di tali operatori. Cosa succede infatti se l’operatore, come nel caso della risposta 437, offre un deposito remunerato in cripto (staking)? Non sconfina nella riserva di legge ex art. 11 Tub (raccolta del risparmio tra il pubblico), con la conseguente necessità di una licenza bancaria? Ed ancora, nel momento in cui l’operatore offre e pubblicizza servizi di investimento in cripto non dovrebbe assumere la veste di Sim e applicare la normativa Mifid?
Il rischio è la creazione di una categoria di intermediari finanziari non soggetti alle stringenti regole destinate a banche e Sim e non vigilati da Banca d’Italia e Consob, che pure svolgono una attività di raccolta fondi e offerta di servizi di investimento (seppure limitati alle sole valute virtuali), con la conseguenza di una minore protezione dell’investitore.