La lotta delle donne iraniane di queste settimane, che si è propagata a tutto il Paese, viene da lontano e non riguarda solo il velo. Nella primavera del 2007 torno davanti all’”Hotel Evin”, il carcere di Teheran, con Nahid Keshavarz, 35 anni, sociologa, per avere un’altra lezione, più aggiornata, sul supercarcere e sull’Iran. L’ho incontrata al Café Naderi, il più celebre ritrovo di Teheran dove ai tavoli per un secolo hanno servito da bere a intellettuali, politici, oppositori. È finita dentro un paio di volte per la campagna “Un milione di firme per i diritti delle donne”.
È svelta e abile a strappare consensi, sfilando il suo foglio dal chador, che appare e scompare come in un gioco di prestigio. Conosce bene la sezione femminile dell’Hotel Evin.
“Dieci delle sedici donne con cui condividevo la cella erano accusate di avere ucciso i mariti. Costrette quasi tutte con la forza a matrimoni che non volevano, giovanissime, all’età di 13-14 anni, maltrattate a bastonate dal padre o dalla famiglia per piegarle ad accettare il loro destino.
Una di loro aveva sposato un uomo più vecchio di 45 anni, un’altra si svegliava con gli incubi gridando di avere ammazzato il marito nel sonno. Nel corso del matrimonio non aveva potuto né divorziare né lasciare la casa con i figli perché veniva minacciata di morte e picchiata. Queste sono le storie amare che popolano le carceri dell’Iran, non ci sono soltanto le vicende di politici, intellettuali e giornalisti, che naturalmente attirano dall’estero molta più attenzione”. Nahid è uscita dalla prigione ancora più determinata a raccogliere firme. “Chi è al potere vuole dimostrare che la parità è una mania da occidentalizzati, riservata a quattro gatti della borghesia benestante. Ma questa è una battaglia di tutte le iraniane, senza distinzioni, non soltanto di un’élite”.
La campagna, che ha come simbolo una bilancia, si basa su alcune modifiche essenziali del codice: abolizione del dieh, il prezzo del sangue, secondo cui una donna, vittima di una violenza o di un incidente, vale metà di un uomo; abolizione della legge sulla testimonianza per cui ora serve quella di due donne per pareggiare quella di un uomo; abolizione della poligamia (un uomo può avere 4 mogli); equiparazione della legge sul divorzio (oggi un uomo può farlo quando vuole mentre per una donna è ben più difficile); elevare l’età minima del matrimonio per le donne da 13 a 18 anni; modificare la responsabilità penale che oggi è di 9 anni per la femmina e di 15 per il maschio; cambiare la legge del Parlamento che dopo i 7 anni sottrae sempre i figli alla madre in caso di divorzio.
“Come vedi – sottolinea Nahid – non si parla del velo. Ci siamo limitate all’essenziale per entrare nel mondo civile. Non tocchiamo il problema del chador, è troppo politico, e forse in fondo neppure così basilare: ci sono da ottenere diritti ancora più vitali”. Parandiz e Pektad, la coppia accanto al nostro tavolo, ha intanto firmato l’adesione alla campagna: entrambi hanno 25 anni, sono studenti e fidanzati.
Parandiz, una ragazza alta e di sfolgorante bellezza, si fa dare una copia dell’appello per farla circolare tra le sue conoscenze. Firma anche Shahab, 30 anni, barbuto docente di informatica in una delle Università della capitale: “Sono d’accordo su tutto ma in questo sistema anche se firmiamo in 60 milioni basta uno solo che dica no, quello che comanda, per non cambiare niente. La religione è un’arma sempre innescata contro la gente”. Ma per Shahab c’è dell’altro. “Anche i giovani, e ne vedo tanti, vivono questa situazione bloccata in modo distaccato: pensano alla libertà come a un bene individuale, non collettivo, la intendono come la possibilità di comportarsi liberamente ma non riescono a tradurre questa spinta in richieste politiche”. I politici iraniani, pure quelli liberali, sono ancora più sconcertanti.
Sembra che non abbiano imparato la lezione di trent’anni fa. “Quando abbiamo chiesto ai riformisti di appoggiarci – racconta Nahid – ci hanno risposto che la questione della parità tra uomo e donna non è così importante, prima viene la lotta per la democrazia. Si comportano un po’ come fece la sinistra, anche quella islamica, all’epoca dello Shah: prima, dicevano comunisti e marxisti, vengono la rivoluzione, la lotta contro l’imperialismo, poi anche la democrazia, i diritti delle donne e dei lavoratori”.
Così le adesioni dei riformisti sono quasi inesistenti e hanno firmato soprattutto gli intellettuali e donne impegnate come il Nobel Shirin Ebadi. Ma Nahid non si scoraggia, così come suo marito, l’ingegnere Nader Haji Mohsen, 37 anni, che ha prosciugato i risparmi per pagare l’equivalente in rial di 20mila euro di cauzione per farla uscire dall’Hotel Evin.
La testimonianza di Nahid raccolta allora ci aiuta a capire il salto di qualità della protesta di oggi: dalla condizione della donna si è passati a un dissenso sempre più allargato della società che minaccia il potere del regime islamico.
Articolo tratto dal numero di ottobre dal magazine We Wealth