Nonostante il piano d’azione della Commissione europea sul finanziamento della crescita sostenibile sia stato adottato a marzo 2018, a oggi ancora molti punti non sono stati ancora affrontati. Uno fra tanti, la misurabilità dei parametri riconducibili all’impegno sociale delle aziende. Se i criteri Esg (che misurano l’impatto ambientale, sociale e di governance) sono infatti ormai al centro del dibattito e le variabili ‘e’ e ‘g’ vengono date per assodate, la strada per l’implementazione degli aspetti sociali risulta ancora in salita. Proprio questo è stato il tema al centro dell’intervento di Yasmine De Bray, Thematic equity portfolio manager di CPR AM, società affiliata del Gruppo Amundi, nel corso dell’evento Fattore ‘S’ e le nuove leve Esg. Il wealth management è pronto?, organizzato da We Wealth e svoltosi lo scorso 30 settembre.
Impatto sociale, da compito gravoso ad atto virtuoso
“Il fattore ‘s’ deve essere considerato preponderante nelle decisioni di investimento” ha infatti affermato De Bray. Per permettere questo, tuttavia, “l’approccio Esg dovrebbe essere basato sulle pratiche, piuttosto che su prodotti o servizi. […] Le aziende dovrebbero mettersi in prima fila e chiedere ai propri fornitori di rispettare standard sociali molto alti”. Sebbene preoccuparsi anche dell’aspetto sociale potrebbe aggravare i compiti delle aziende, aggiungendosi alla lunga to-do list che ciascuna di esse deve affrontare, l’impatto di questa decisione potrebbe avere un risvolto positivo non solo dal punto di vista societario, ma anche da quello economico. Questa teoria è stata supportata anche dalla letteratura accademica, secondo cui le imprese che hanno un alto rendimento dal punto di vista sociale risultano poi anche quelle con le performance finanziarie migliori.
Come misurare l’impatto sociale delle aziende
Per De Bray, la prima domanda da porsi per capire come mai il fattore ‘s’ risulti, ad oggi, ancora il meno implementato, riguarda il perché questo sia così diverso dagli altri due criteri. “La realtà è che è più facile misurare scientificamente l’impatto ambientale di un’azienda. Per l’impatto sociale, invece, il compito è più complesso” ha continuato De Bray. Tuttavia, non bisogna scoraggiarsi, in quanto “vi sono delle pratiche sociali oggettivamente migliori. Come gestori, abbiamo l’ambizione di metterle in pratica e investire in aziende che propongono best practice solo se definite in modo oggettivo. Abbiamo 17 elementi di valutazione come, ad esempio, la percentuale di donne nell’azienda o le ore di formazione per impiegato per anno. Questo serve a misurare in maniera oggettiva il lato sociale e a comparare le aziende”.
Guarda l’intervento di Yasmine De Bray durante l’evento
Fattore ‘s’, il ruolo della Tassonomia sociale
Una volta misurati i dati è l’ora del confronto tra aziende, al fine di scegliere le migliori. “Per poterlo fare è necessario avere una reportistica robusta, basata su dati non solo di qualità, ma anche simili, paragonabili e trasferibili”. Questo tema rappresenta al momento un problema: in Europa, infatti, non esistono ancora aziende che mettono a disposizione i loro dati riguardanti il fattore ‘s’, ma la situazione si avvia verso una svolta. “La Direttiva europea che sta passando adesso (la cosiddetta Tassonomia sociale, ndr) renderà obbligatorio fornire questi dati ed è stato deciso che dovranno essere convalidati da una parte terza. Questo sarà imposto anche alle aziende non europee che però fatturano anche in Europa. Compagnie come Tesla dovranno fornire un reporting finanziario migliore, ma questo potrebbe diventare realtà tra 10 anni”. Non ci sono ancora certezze e questo processo potrebbe non essere completo entro il 2030: tuttavia, non si può più aspettare per essere trasparenti con i clienti.