Col metodo contributivo dal 1996 i contributi accantonati vengono convertiti in rendita attraverso coefficienti di trasformazione calcolati in base all’età di pensionamento e aggiornati secondo l’aspettativa di vita
Dopo i ricchi assegni dei boomers, le generazioni successive devono abituarsi a pensioni più basse, in qualche caso mitigate dal cosiddetto sistema misto
Il legislatore per non penalizzare eccessivamente i contribuenti più “anziani”, per coloro i quali avevano almeno 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995, ha esteso fino al 31 dicembre 2011 il sistema retributivo
Per quanto riguarda autonomi e partite Iva, con il passaggio al sistema misto il massimale su cui si pagano i contributi si riduce da 105.014 a 80.465 euro, con un conseguente risparmio sui contributi obbligatori che se poi versato in un fondo pensione porterà un ulteriore beneficio
Sono tanti i dirigenti e le partite Iva che interpellati su quando andranno in pensione rispondono evasivi: “Pensione? Ma io non ci andrò mai!”. Battute a parte, il tema fondamentale in questo caso non è quando, ma bensì con quanto.
Dal 1° gennaio 1996, infatti, nel nostro Paese è entrata in vigore la riforma Dini con cui è stato introdotto il sistema di calcolo contributivo della pensione. Si tratta di un metodo indubbiamente più equilibrato perché pone in diretta correlazione quanto versato con quanto il soggetto percepirà durante la quiescenza.
Con questo sistema, infatti, i contributi accantonati vengono convertiti in rendita attraverso coefficienti di trasformazione calcolati in base all’età di pensionamento e aggiornati secondo l’aspettativa di vita. Inoltre, la riforma Dini va anche ricordata perché ha introdotto la gestione separata Inps per assicurare la tutela previdenziale ad alcune categorie di lavoratori come i collaboratori che fino a quel momento ne erano escluse (sistema di calcolo contributivo).
“In questo modo ogni lavoratore mette da parte la sua scorta pensionistica e questo è sicuramente un bene a differenza di quello che avveniva con il sistema retributivo” sottolinea Emanuele Chillè, private banker di Sanpaolo Invest a Bergamo ed esperto di pensioni iscritto all’Associazione Analisti Previdenziali Italiani (Asapi). “Ma è anche vero che questo metodo ha una premialità più bassa, visto che riduce notevolmente gli assegni a cui si era abituati in passato”. Insomma, dopo i ricchi assegni dei boomers, le generazioni successive devono abituarsi a pensioni più basse, solo in qualche caso mitigate dal cosiddetto sistema misto.
Cosa è il sistema misto
Ma di che cosa si tratta? In pratica il legislatore per non penalizzare eccessivamente i contribuenti più “anziani”, per coloro i quali avevano almeno 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995, ha esteso fino al 31 dicembre 2011 il sistema retributivo. Un regime particolarmente interessante per i dirigenti e le partite Iva e che può essere utilizzato o riscattando gli anni di laurea ante 1996 in modalità ordinaria (basta anche un solo anno) o accreditando figurativamente i mesi di militare fino al 31/12/1995 facendo direttamente domanda all’Inps.
Si tratta di un passaggio particolarmente importante che si può analizzare meglio attraverso un esempio concreto. Se ipotizziamo un dirigente con una retribuzione di 200 mila euro lordi annui, il passaggio al sistema misto diventa impattante sull’importo dell’assegno pensionistico in quanto la contribuzione del 33% sarebbe calcolata sull’intero importo e non fino al massimale. Per cui il 33% di aliquota prevista per il lavoratore dipendente (1/3 a carico del lavoratore e 2/3 a carico del datore di lavoro) verrebbe calcolato su tutti i 200 mila euro e non solo fino al massimale di 105.014 euro (fissato per il 2022) con un quasi raddoppio dei contributi versati. Una “soluzione” che, per intenderci, potrebbe raddoppiare l’importo della pensione, portandola invece da 4 mila a 8 mila euro al mese.
Il sistema misto per autonomi e partite Iva
Per quanto riguarda gli autonomi e le partite Iva, invece, con il passaggio al sistema misto il massimale su cui si pagano i contributi si riduce da 105.014 a 80.465 euro. Per cui, ad esempio, un artigiano con un reddito di 100 mila euro pagherebbe il 24% fino a 80.465 euro, cioè 19.311 euro invece di 24 mila, risparmiando così 4.689 euro. “Se poi il nostro lavoratore autonomo dovesse decidere di versare questa somma a un fondo pensione ne avrà un ulteriore beneficio” continua Chillè “perché in questo caso deduce l’aliquota Irpef più alta recuperando un ulteriore 43%, ovvero altri 2.016 euro”. Una somma di tutto rispetto che andrebbe così a rimpinguare la sua rendita pensionistica futura. Ma che va ben ponderata, già oggi, evitando un rischioso fai da te. “Si tratta di un circolo virtuoso che può essere innescato avendo al proprio fianco un professionista che consiglia il cliente sulle scelte più vantaggiose da attuare ora per ottenere il massimo in futuro” conclude Chillé.
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