Il presidente Trump non è di certo il politico più amato del mondo. Non è nemmeno il presidente più amato negli Usa. Solo un paio di “sfortunati” predecessori (George H. W. Bush, il primo dei Bush per intenderci, quello che le prese da Clinton e non arrivò al secondo mandato; Jimmy Carter, incappato nello spiacevole intoppo della crisi degli ostaggi americani in Iran) fecero peggio, in termini di consenso, verso la fine del loro primo mandato. I risultati dei sondaggi (vedi grafico a pag. 41) mostrano un tracciato che non dovrebbe dare molte chance al presidente uscente. (E il tampone positivo al coronavirus per Trump e Melania, annunciato il 1° ottobre, non sembra destinato a cambiare lo scenario ndr). Apparentemente, da tre anni gioca contro la sua pubblica opinione e, apparentemente, perde con regolarità. Perché allora si discute sull’incertezza legata alle prossime elezioni? In realtà al di sotto di questo quadro disegnato dai sondaggi, sembrano muoversi dinamiche più complesse, che val la pena accennare. Potremmo dire – per pulire la nostra coscienza di ricercatori sociali – che non sarebbe una novità scoprire che talvolta i sondaggi sbagliano. Quando sbagliano spesso è perché prendono troppo sul serio le posizioni più facili da ascoltare, quelle più facili da difendere pubblicamente. Ma c’è qualcosa di più. In primo luogo – come molti lettori sanno – per il fatto che Trump è stato eletto perdendo le ultime elezioni in termini di voto popolare. La maggioranza andò alla candidata Hillary Clinton, ma il meccanismo elettorale delle presidenziali Usa premia la vittoria in alcuni Stati e nella conta dei cosiddetti “grandi elettori” che li rappresentano. Per cui anche in questo caso, non conta il 51% del voto popolare, ma la maggioranza negli stati giusti. Altri fattori sono tipici di questa tornata elettorale 2020. Il duellante: la scelta del partito Democratico è caduta sul candidato naturale dell’establishment. Ex vice di Obama, anziano, famoso per la sua modestia come oratore. Qualche osservatore americano conclude che la fortuna di Joe Biden sia proprio il covid e Trump: la possibilità di non svolgere eventi sul territorio e la possibilità di far leva sulla scarsa simpatia di Trump (almeno presso i dem e, a quanto sembra, in una parte degli elettori incerti o indipendenti) semplificando i messaggi e le occasioni di incontro, garantiscono il mantenimento del goodwill verso Biden. Forse è una visione ingenerosa. Ma la forza del candidato democratico appare molto, molto relativa. Il covid: I casi negli Usa hanno superato i 6,8 milioni. I decessi sono attorno ai 200mila (dati al 21 settembre 2020). Sono numeri impressionanti ed ancora in crescita, l’epidemia negli Usa non sembra ancora sotto controllo, è possibile che resti fuori controllo fino all’arrivo del vaccino, vista la ritrosia ad applicare in modo diffuso quelle pratiche di distanziamento che bene o male hanno limitato i danni in altri paesi (ne sappiamo qualcosa). Ma se li leggiamo con un maggior distacco, potremmo anche concludere che i decessi si muovono attorno ad un tasso del 3% dei contagi (perlomeno di quelli ufficiali). Ricordiamoci che altri paesi hanno avuto mortalità relative dell’ordine del 13-15% dei contagi ufficiali.
Il bilancio in ogni caso va letto sulla scala di lettura di quel paese. I decessi all’anno sono 2,8 milioni circa (NCHS Usa, 2018), la speranza di vita è in contrazione, le cause di morte più diffuse sono quelle che potremmo definire da stile di vita occidentale estremo: infarto, tumore ed incidenti (incluse le overdosi da oppiacei, che risultano avere numeri impressionanti e spesso concentrati in alcuni segmenti di popolazione, giovani neri, ad esempio). Anche le cause di morte violenta (armi da fuoco) hanno numeri importanti e ancora una volta concentrati sui segmenti delle marginalità sociale (e razziale). In sintesi, l’epidemia covid ha numeri impressionanti e fuori scala, ma ritenere che questo fattore sia dirimente nella competizione elettorale di novembre potrebbe portare fuori strada. Senza dimenticare che l’arrivo (anche solo simbolico) del vaccino, potrebbe rappresentare un ulteriore fattore di ribilanciamento delle forze in gioco. Le soccer mom: le soccer mom sono un’icona socio-politica che viene dai tempi clintoniani. Sono le mamme (spesso bianche), indaffarate, con il doppio/triplo ruolo, residenti nei suburbi americani della middle class. Il primo voto per Trump viene dai maschi bianchi, non certo dalle comunità nere o ispaniche, come confermato dai recenti disordini. Il nodo delle donne, madri, bianche diventa quindi un punto chiave. Le soccer mom sono pragmatiche, per nulla ideologiche, ma hanno a cuore alcuni temi che una volta sarebbero stati facilmente nelle corde Repubblicane: sicurezza, stabilità, soluzioni di problemi concreti, fra i quali la scuola. Trump sta cercando di solleticare alcuni di questi temi, ma attualmente la confusione è molto alta ed il suo tentativo potrebbe naufragare. Se dovessimo considerare l’attenzione che Trump ha riservato alle tematiche di genere e alla figura della donna in generale, potremmo dire che – per lui – questo gruppo sociale è perso. Ma il segmento delle soccer mom non è ideologico, anche se sta aumentando la sua sensibilità ai temi di genere. Sempre attraverso il pragmatismo: le forti tensioni sulle riaperture delle scuole in periodo covid, il bisogno di supporto nella gestione del doppio ruolo di lavoratrici e madri. Il numero delle mamme americane che hanno fatto ricorso ai programmi di supporto per la gestione figli a scuola è importante e superiore ai 20 milioni. Molti commentatori sottolineano che le soccer mom si sono trasformate in raged mom, ovvero mamme attive nei movimenti di protesta anche legati alle singole comunità. Molte mamme bianche iniziano a condividere quel disagio sociale che prima era tipico delle donne delle comunità “coloured”. La crisi della classe media si fa sentire anche sotto questo aspetto.
Quest’anno sono tornati a crescere i ragazzi fino a 29 anni che restano a vivere in famiglia (52% dei casi, era il 44% negli anni della crisi finanziaria, attorno al 2010). Un altro segnale delle strategie difensive della famiglia americana. Le “mamme del calcio” stanno abbandonando Trump, dunque? Malgrado tutto, è presto per dirlo, però sarà un indicatore fra i più sensibili, da tenere sotto controllo fino agli ultimi giorni, per capire se Trump ce la farà. Le modalità di recupero – concrete e pragmatiche – stanno nella capacità di dare sostegno e sicurezza alla famiglia ed alla donna multiruolo. Pochi giorni fa Trump ha annunciato con foga che “le medicine negli Usa costeranno meno e che nessuno dovrà più approfittarsi della famiglia americana”. Appunto. La crisi economica: l’economia da sempre è il punto chiave delle elezioni. Tutti ricorderanno il motto “it’s economy, stupid” con il quale Clinton stracciò Bush nel 1992. La crisi economica è evidente. In tre mesi, da marzo a maggio 2020, la disoccupazione ufficiale è passata dal 4% a quasi il 15%. Ma dal picco di maggio è già scesa all’8% a settembre. Il mercato del lavoro americano è così flessibile che i riferimenti europei (dove occupazione e disoccupazione, grazie ai meccanismi di ammortizzazione, impiegano trimestri per muoversi in un senso o nell’altro) non sono utili per prevedere i comportamenti. Il fattore occupazione sarà importante anche per queste elezioni, un mese di ottimismo (o di ulteriori cadute), soprattutto sull’economia dei servizi, può invertire completamente la direzione. L’economia dei servizi ci ricorda che ad esempio la crisi covid sta impattando in modo diverso in diversi stati. A New York City la città è in crisi, le chiusure e le limitazioni (il governatore Cuomo ha appena acconsentito a concedere un utilizzo massimo del 25% dei coperti interni per ogni ristorante) hanno vuotato negozi, ristoranti, bar. Negli stati del Sud, la situazione appare molto diversa. Queste diversità territoriali incideranno sulle elezioni. E una discreta ripresa dell’occupazione negli “swing state” (gli stati incerti e che possono decidere il risultato) potrebbe cambiare i giochi. In sintesi, malgrado i sondaggi (e l’opinione delle élite americane ed europee), Trump potrebbe ancora vincere la rielezione. La sua arma, rozza quanto si vuole, è di indubbia efficacia: la duttilità, l’assoluta mancanza di posizioni ideologiche, la totale disponibilità ad assumere in tempi brevi posizioni polari se (a suo avviso) utili al raggiungimento dei suoi obiettivi. Di recente un deputato norvegese lo ha proposto per il Nobel per la Pace, a seguito del successo della sua amministrazione nel far firmare un trattato normalizzazione delle relazioni fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti. Una notizia che all’inizio ha fatto sorridere molti. Successo bissato nei giorni scorsi da analogo trattato con il Bahrein, intesa che lascia aperta la possibilità che a questi si aggiunga presto persino l’Arabia Saudita, completando una normalizzazione diplomatica che nessuno aveva mai realizzato. Non è detto che questi progressi riescano a ad abbassare la tensione nell’area. La comunità ebraica Usa vota a maggioranza i democratici. Ma il suo legame con Israele è molto forte, soprattutto quello della sua minoranza ortodossa, più vicina a Trump, malgrado alcune imbarazzanti amicizie del Presidente (fra i suprematisti e razzisti bianchi). Ma questo è Trump. Questo è un esempio della sua caotica e forse pericolosa presidenza. Sottovalutarlo in vista dell’appuntamento di novembre appare sconsigliabile.
Il presidente Trump non è di certo il politico più amato del mondo. Non è nemmeno il presidente più amato negli Usa. Solo un paio di “sfortunati” predecessori (George H. W. Bush, il primo dei Bush per intenderci, quello che le prese da Clinton e non arrivò al secondo mandato; Jimmy Carter, incappato…