L’assenza di una soluzione condivisa a livello internazionale ha generato vari tentativi, soprattutto europei, di architettare, sulla falsariga di una proposta europea (proposta Dir. 148/2008), una imposta sui servizi digitali (Isd) che potesse colpire temporaneamente – in attesa dell’accordo Ocse – i redditi “apolidi” generati dai servizi digitali offerti dalle più grandi multinazionali del settore (le cosiddette Gafa). L’imposta così allevierebbe la momentanea perdita di gettito e avrebbe il pregio di rifondere fiducia nel sistema fiscale.
Nonostante gli sforzi profusi dalla comunità internazionale, questa tematica resta tuttora controversa e oggetto di accesi dibattiti. Su di essa aleggiano svariate incognite pure dovute all’influenza di fattori interni (tecnici) ed esterni (politici) largamente legati alla posizione statunitense.
Ciò che più preoccupa è che l’introduzione da parte di molti Stati di soluzioni autonome, oltre a reazioni ritorsive degli stessi Stati Uniti, mina alle fondamenta i tentativi di uniformità (del mercato) e omogeneità (della tassazione) a lungo propugnate a livello unionale e internazionale.
Nell’attuale contesto di incertezza, il nostro governo ha privilegiato ragioni di gettito e introdotto una Isd unilaterale che perderà efficacia quando sarà data attuazione all’accordo Ocse (“sunset clause”). In particolare, con la legge di bilancio del 2020 (art. 1 c. 678, L. 160/2019) è stata riportata in vita, con qualche modifica, l’Isd di cui, da ultimo, s’era tentata l’introduzione con la legge di bilancio 2019 (art. 1, L.145/2018).
L’imposta, in vigore dal 1° gennaio 2020, prevede una tassazione di taluni servizi digitali con aliquota del 3% oltreché vari adempimenti per i Gafa tra cui: predisposizione di idonea contabilità, versamento dell’imposta entro il 16 febbraio 2021 e presentazione di una specifica dichiarazione entro 31 marzo 2021.
L’imposta colpisce i ricavi generati dai Gafa (con ricavi worldwide non inferiori a 750 milioni di euro e con ricavi da servizi digitali realizzati in Italia non inferiori a 5,5 milioni) a fronte dei “servizi digitali” aventi a oggetto “a) la veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia; b) la messa a disposizione di un’interfaccia multimediale che consenta agli utenti di entrare in contatto ed interagire tra di loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi; c) la trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale”.
Con riguardo ai servizi pubblicitari di cui alla lett. a) la norma prescrive di individuare una percentuale rappresentativa della parte dei servizi digitali collegata al nostro Paese in misura pari “alla proporzione dei messaggi pubblicitari collocati su un’interfaccia digitale in funzione di dati relativi ad un utente che consulta tale interfaccia mentre è localizzato nel territorio dello Stato”.
La formulazione della norma lascia spazio a numerosi dubbi redendone particolarmente difficile se non impossibile l’applicazione specie con riferimento ai servizi pubblicitari.
Rispetto a questi ultimi si segnala quanto segue.
In primo luogo, la norma non definisce cosa debba intendersi per pubblicità mirata. Quest’ultima espressione assai generica meriterebbe più approfondite riflessioni. Trattandosi di un requisito fondamentale per l’applicazione dell’imposta ai servizi in parola, in assenza di una legittima integrazione normativa (non quindi di un documento di prassi) potrebbe anche dubitarsi della tenuta della norma al vaglio di costituzionalità. Ad ogni buon conto, una interpretazione sistematica della proposta comunitaria, dovrebbe far propendere per la rilevanza dei messaggi pubblicitari unicamente riferibili al mercato di sbocco e/o conseguenti alla profilazione dell’utente.
In secondo luogo, il requisito della necessaria collocazione su un’interfaccia digitale della pubblicità mirata si infrange contro problematiche tecniche e profili di diritto della privacy. Difatti, sulla base degli attuali software (utilizzati ad esempio da Facebook, Instagram) non pare possibile distinguere le visualizzazioni effettive da quelle presunte. Vi sono standard per la misurazione delle visualizzazioni possibili che tuttavia stabiliscono quando sussiste la “possibilità di vedere” un’inserzione, ma non pretendono di valutare l’effettiva visualizzazione del messaggio. Essi, in sostanza, non tengono conto dell’accesso o consultazione di una utenza attiva per definire le probabilità che un messaggio pubblicitario possa essere visualizzato piuttosto ne stimano la possibilità che ciò accada.
In terzo luogo, e quale elemento di novità rispetto ai numerosi interventi sul tema di cui si discute, si evidenzia un disallineamento tra la norma nazionale e la proposta europea su un fattore chiave; le grandezze da considerare per determinare la base imponibile. La norma italiana prescrive di applicare l’aliquota ai ricavi territorialmente rilevanti ottenuti come prodotto dei ricavi complessivi per la proporzione (in percentuale) dei messaggi pubblicitari visualizzati dal singolo utente. La proposta europea invece individua ai fini della proporzione il numero di volte in cui un messaggio pubblicitario è apparso sui dispositivi degli utenti (art. 5, par. 3, lett. a). Quest’ultima impostazione sembrerebbe preferibile pur con qualche riserva sull’attendibilità di un risultato proporzionale ancorato al singolo messaggio.
Più in generale permangono perplessità sulla possibilità di isolare i servizi in parola da quelli relativi alla messa a disposizione di un’interfaccia (lett.b) stante la commistione che sovente si verifica tra i due servizi. E rimane poi discutibile l’affidabilità del sistema di geolocalizzazione degli utenti cui è ancorata la collocazione dei servizi digitali rilevanti e quindi dei ricavi tassabili attribuibili al nostro paese.
Qualche riflessione ulteriore si renderà opportuna anche per ciò che attiene i servizi infragruppo esclusi in quanto tali dall’ambito di applicazione della Isd. In tale prospettiva, particolare rilevanza assumerà l’analisi delle funzioni svolte dalle varie entità dei gruppi multinazionali interessati posto che, per quanto consta, in taluni degli attuali modelli di business dei Gafa (gruppo Facebook) le controllate locali svolgono a beneficio del gruppo attività di fornitura di servizi di supporto alle vendite e di marketing nonché la funzione di rivenditore di servizi pubblicitari a clienti designati.
Complessivamente, la Isd italiana presenta tali e tanti profili controversi, in parte già adombrati con riferimento alla proposta europea, che ne rendono alquanto improbabile l’applicazione concreta specie riguardo ai servizi pubblicitari.
Criticità di cui non pare si sia tenuto conto nella bozza di provvedimento dell’agenzia delle entrate di ieri in consultazione pubblica sino al 31 dicembre e che dovrebbero suggerire ai Gafa e agli operatori di adottare le opportune cautele per minimizzare i rischi legati ad una, piuttosto probabile, erronea applicazione dell’imposta.
D’altro canto, se contestualizzate nell’attuale ambiguo scenario internazionale le questioni interpretative e applicative irrisolte dovrebbero indurre il governo a valutare senza indugio la possibilità di sospendere gli adempimenti imminenti previsti per febbraio e marzo 2021. Ciò evidentemente anche nell’ottica di ridurre le molto probabili derive contenziose.