L’Agenzia delle entrate fornisce una risposta nel caso di un lavoratore che ha fatto smartworking fuori dall’Italia
Attenzione al periodo di rientro e a come comportarsi da sostituto di imposta
Il caso
La società istante in considerazione della dimensione internazionale del Gruppo cui appartiene ha da sempre investito in programmi di sviluppo promuovendo la mobilità internazionale del proprio personale. L’organico della società è parzialmente composto da dipendenti che svolgono la propria attività lavorativa all’estero presso le sedi del Gruppo e da soggetti di cittadinanza italiana e non, provenienti dall’estero che svolgono la propria attività lavorativa in Italia. In particolare, è frequente che il personale dipendente della società istante svolga la propria attività lavorativa all’estero, attraverso l’istituto giuridico del distacco o attraverso contratti di lavoro di diritto estero, con le altre consociate estere del Gruppo. L’improvvisa crisi sanitaria internazionale determinata dal diffondersi del Covid-19 ha però stravolto le modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa per molti lavoratori expatriates.
La chiusura della maggior parte delle attività produttive nei primi mesi del 2020 e le misure restrittive alla circolazione delle persone imposte dagli stati per contenere la diffusione del virus, hanno ridotto la possibilità di spostamento e spinto le aziende ad adottare modalità di svolgimento dell’attività lavorativa flessibili. L’eccezionalità di tali misure emergenziali e l’interruzione della mobilità fisica ha fatto sì che i lavoratori svolgessero per periodi più o meno lunghi la propria attività in un luogo diverso, sotto il profilo meramente fisico, da quello previsto dal contratto di lavoro o di distacco. In particolare, l’implementazione di tali rigorose restrizioni ha determinato alcuni casi di immobilismo forzato o, al contrario, la necessità di rientri improvvisi nei paesi di origine, impedendo poi ai dipendenti il ritorno nel luogo in cui normalmente l’attività veniva prestata. In molti casi rientrare nel paese di destinazione del distacco avrebbe comportato comunque la necessità di fare ricorso allo smart working.
La società istante chiede spiegazioni per il caso di un dipendente, fiscalmente residente in Italia, assunto con contratto a tempo indeterminato e inquadramento di dirigente, distaccato a decorrere dal 1° maggio 2019 presso una consociata estera, con sede di lavoro presso gli uffici della società a Parigi. Il dipendente, durante il 2019 e nel 2020, si è qualificato come soggetto fiscalmente residente in Italia perché nonostante il distacco in Francia, ha mantenuto l’iscrizione anagrafica e il domicilio nel nostro Paese, per la maggior parte di ciascun periodo d’imposta considerato (famiglia in Italia). A causa della straordinarietà della situazione e delle restrizioni alla libertà di circolazione imposte il lavoratore è rientrato in Italia a Febbraio 2020, continuando a svolgere la propria prestazione lavorativa in remote working. Pertanto, il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa del dipendente è diventato, eccezionalmente e temporaneamente, l’abitazione del lavoratore in Italia. Il distacco del lavoratore in Francia, da un punto di vista contrattuale e di fatto, non ha subito modifiche né sotto il profilo individuale, né sotto il profilo dell’accordo intercompany, rimanendo il costo addebitato alla società distaccataria francese.
Si chiede dunque all’Agenzia delle entrate gli obblighi di sostituzione di imposta che la società istante ha relativamente alla tassazione del reddito di lavoro dipendente prodotto in costanza di distacco dal lavoratore.
Risposta
L’Agenzia delle entrate spiega come nell’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir si prevede, in deroga a quanto stabilito dai precedenti commi del medesimo articolo 51 del Tuir, che: “il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali di cui all’art. 4, comma 1, del decreto-legge 31 luglio 1987, n. 317, convertito dalla legge 3 ottobre 1987, n. 398”. Queste retribuzioni sono fissate entro il 31 gennaio di ogni anno e sono determinate con riferimento e comunque in misura non inferiore al trattamento economico minimo previsto dai contratti collettivi nazionali di categoria raggruppati per settori omogenei. L’Agenzia delle entrate ricorda inoltre come il comma appena citato si può applicare solo se l’attività lavorativa è svolta all’estero in maniera stabile (cioè si viva fuori dall’Italia per un periodo superiore ai 183 giorni).
Nel caso in esame, il lavoratore rispetta il seguente requisito ma dal 23 febbraio 2020 , giorno in cui è tornato in pianta fissa in Italia, perde i requisiti detti. E dunque secondo l’Amministrazione finanziaria il reddito prodotto a decorrere da febbraio 2020 dovrà essere rideterminato dalla società istante come previsto dall’articolo 51, commi 1-8 del Tuir.