La rivalutazione, che poteva essere effettuata anche ai soli fini civilistici (con effetti positivi sulla patrimonializzazione delle imprese), poteva altresì assumere rilevanza fiscale con il versamento di un’imposta sostitutiva del 3%, rateizzabile in un massimo di tre rate di pari importo. In caso di riconoscimento fiscale, gli ammortamenti sui beni rivalutati risultavano immediatamente indeducibili (dall’esercizio successivo a quello in cui viene operata la rivalutazione) e la riserva iscritta a fronte della rivalutazione era in sospensione di imposta. La rivalutazione poteva essere operata anche su singoli beni.
Una previsione che, al contrario, risultava in linea con le versioni precedenti era quella secondo la quale, per la determinazione delle plus/minusvalenze a seguito di cessioni di beni rivalutati effettuate in data anteriore a quella di inizio del quarto esercizio successivo a quello nel quale la rivalutazione è stata eseguita, occorre fare riferimento al costo ante rivalutazione (quindi, per i soggetti con esercizio coincidente con l’anno solare, la rilevanza fiscale per le cessioni si avrebbe dall’1 gennaio 2024).
E vi è di più. Con una disposizione che ha fatto molto discutere, il periodo di ammortamento relativo ai marchi e all’avviamento oggetto di rivalutazione/riallineamento è stato portato dagli ordinari 18 anni a 50 anni, con un cambiamento in corsa delle regole del gioco. Rimane sempre la possibilità, ben più onerosa, prevista dal Dl 23/2020, di rivalutare i beni aziendali con il pagamento di un’imposta sostitutiva del 12% per i beni ammortizzabili e del 10% per i beni non ammortizzabili, così come quella, prevista dal Dl 41/2021, di rivalutare (ad esempio nel bilancio chiuso al 31 dicembre 2021), solo civilisticamente, i beni aziendali che non sono stati rivalutati nell’esercizio precedente, con un possibile beneficio sulla capitalizzazione delle imprese ma con la necessità di gestire il cosiddetto doppio binario tra valori contabili e valori fiscali (ad esempio, ammortamenti indeducibili).