L’accordo arriva al termine di un fine settimana di negoziati frenetici
Nel dettaglio Ubs acquista Credit Suisse per 0,76 franchi svizzeri per azione, o 3 miliardi di franchi svizzeri
Negli Usa, intanto, le banche sono corse a chiedere liquidità in prestito alla Federal Reserve con un ritmo mai visto dai tempi della crisi del 2008, con 165 miliardi di dollari nella sola settimana seguita al fallimento della Silicon Valley Bank
A sorpresa Ubs ha acquistato la rivale Credit Suisse per tre miliardi di franchi svizzeri (3,35 miliardi di dollari). Con un’operazione organizzata dalla Banca centrale svizzera, con il coinvolgimento della autorità europee e americane, i due colossi convolano a nozze in un storico accordo per cercare di disinnescare la crisi in atto nel sistema bancario, con una corsa nel fine settimana per risolvere il caso prima della riapertura dei mercati.
Gli azionisti di Credit Suisse – si legge nella nota – riceveranno 1 azione Ubs ogni 22,48 azioni Credit Suisse detenute, pari a 0,76 franchi/azione per un corrispettivo totale di 3 miliardi di franchi svizzeri. Si prevede che la fusione delle due attività genererà un tasso annuo di riduzione dei costi di oltre 8 miliardi di dollari entro il 2027.
Il salvataggio di emergenza del Credit Suisse
L’amministratore delegato di Ubs Ralph Hamers sarà alla guida della banca che nascerà dalle nozze fra Credit Suisse e Ubs.
Per effetto dell’operazione, fa sapere Ubs in una nota, nascerà un gigante da 5mila miliardi di dollari di asset investiti, di cui 3.400 miliardi nel wealth management, il resto riconducibile all’asset management.
Il presidente di Ubs, Colm Kelleher ha dichiarato: “Questa acquisizione è interessante per gli azionisti di Ubs ma, sia chiaro, per quanto riguarda Credit Suisse, si tratta di un salvataggio d’emergenza. Abbiamo strutturato un’operazione che preserverà il valore rimasto nell’azienda, limitando al contempo la nostra esposizione al ribasso. L’acquisizione delle capacità del Credit Suisse nei settori della gestione patrimoniale e dell’universal banking svizzero rafforzerà la strategia di UBS di crescita delle sue attività a basso assorbimento di capitale. La transazione porterà vantaggi ai clienti e creerà valore sostenibile a lungo termine per i nostri investitori”.
L’impatto sui mercati e tassi
Il salvataggio dovrebbe tranquillizzare la tensione in Europa, dove la situazione di crisi sembrava fin da subito confinata al Credit Suisse. L’acquisizione della seconda banca svizzera pone fine a un periodo molto complicato: dallo scandalo dei pedinamenti a danno di alcuni manager, fino ad alcuni investimenti sbagliati, in particolare quelli legati alla finanziaria Greenshill e al fondo Archegos, che avevano generato ampie perdite e contribuito a minare la fiducia degli investitori.
Sulla carta, l’intervento tempestivo, a Borse chiuse, dovrebbe essere accolto positivamente dagli investitori, restituendo un po’ di ossigeno alle banche europee: vale la pena ricordare che nelle ultime settimane l’indice Euro Stoxx Banks ha ceduto quasi 20 punti percentuali. L’operazione “di sistema” potrebbe disinnescare il rischio di un contagio su vasta scala. Resta da capire quale sarà l’impatto dell’acquisizione su Ubs: le vulnerabilità del Credit Suisse andranno comunque sanate. E, con ogni probabilità, dovranno essere attuate politiche di tagli, almeno nelle aree dove il matrimonio tra i due colossi genera inefficienze.
Intanto, se le tensioni dovessero svanire rapidamente, come qualche analista ipotizza, questo potrebbe avrebbe delle ripercussioni anche sulla traiettoria di politica monetaria della Banca centrale europea. I “falchi” di Francoforte tornerebbero infatti ben presto a esercitare pressione affinché l’autorità monetaria prosegua nel proprio cammino di contenimento dell’inflazione. Uno scenario che continua a generare incertezza sul mercato.
La crisi delle banche negli Stati Uniti
Intanto la situazione resta fluida anche sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico.
Per anni le banche hanno esortato i propri correntisti a smobilitare i loro depositi per convincerli a investire (nei fondi da esse distribuiti): dopo il caso SVB, il problema sarà convincerli a lasciare i propri soldi sul conto. “Le politiche annunciate finora non affrontano la questione centrale, ovvero che gli investitori possono ottenere rendimenti più elevati in uno strumento di investimento a rischio inferiore [del deposito bancario] con un fondo monetario in titoli di Stato, che ha accesso alla Reverse Repo Facility (RRP) della Fed”, ha affermato l’economista di Pimco, Tiffany Wilding, “facendo un passo indietro, i tassi sui depositi bancari sono rimasti indietro rispetto all’aumento del tasso sui fed funds, rendendo gli investimenti in fondi monetari più redditizi dei depositi bancari”.
Per convincere gli investitori a non muovere i soldi dal proprio conto i rendimenti offerti dai conti correnti negli Usa dovranno mediamente salire, deprimendo il margine d’interesse (e gli utili) del comparto. Anche solo per questa ragione, al netto della possibilità di nuovi crac, si può comprendere l’indebolimento dei titoli bancari Usa. “Nel peggiore dei casi”, ha aggiunto Wilding, “l’aumento dei tassi sui depositi potrebbe rendere alcune banche non redditizie, in quanto pagano per i depositi più del rendimento che ottengono dai titoli e dai prestiti accumulati negli ultimi due o tre anni”.
Per bilanciare questo fenomeno, le banche potrebbero aumentare il costo del credito, aumentando le possibilità di una recessione negli Stati Uniti. Anche per questo, il mercato ha ridotto le sue aspettative sulla prossima mossa della Federal Reserve, che dovrebbe innalzare i tassi di 25 punti base, anziché di 50.
L’impatto di questa virata nelle aspettative ha favorito l’oro, il cui prezzo è aumentato del 5% nelle ultime cinque giornate di scambi, a quota 1.964 dollari l’oncia e fatto rientrare i rendimenti dei Treasury a breve termine: dopo essere stato per oltre un mese oltre il 5% di rendimento, i Buono del Tesoro Usa annuale rende, al 17 marzo, il 4,393%.
Il problema della corsa agli sportelli e come le banche corrono ai ripari
Le banche americane sono corse a chiedere liquidità in prestito alla Federal Reserve con un ritmo mai visto dai tempi della crisi del 2008, con 165 miliardi di dollari nella sola settimana seguita al fallimento della Silicon Valley Bank. Della cifra in questione 153 miliardi sono stati richiesti attraverso un programma di prestiti preesistente, mentre altri 11,9 miliardi sono stati presi in prestito dal Bank term funding program messo in piedi ad hoc dopo il crollo di SVB (che permette di usare come collaterale i bond e gli Mbs al valore di acquisto e non di mercato).
La liquidità presa in prestito dalla Fed permette alle banche di mettersi al riparo dalle perdite dovute all’aumento dei prelievi da parte dei propri depositanti. Con più a liquidità a disposizione presa in prestito, si riduce la necessità di recuperarla vendendo titoli obbligazionari svalutati in seguito al rialzo dei tassi. I bond perdono valore quando i tassi aumentano. Ma a quanto ammontano le perdite potenziali sui titoli acquistati dalle? Secondo i dati ufficiali del Federal Deposit Insurance Corporation le perdite non realizzati sui titoli delle banche americane erano pari a 620 miliardi di dollari alla fine del 2022. Secondo uno studio condotta dalla New York University le perdite complessive possono superare 1.750 miliardi di dollari.
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In Borsa, i timori di una corsa agli sportelli tale da far crollare un istituto bancario grande a sufficiente da innescare una crisi sistemica sono chiaramente evidenti nel confronto fra l’indice settoriale si S&P dedicato alle banche al confronto con l’S&P 500 depurato dai titoli finanziari. Da inizio marzo a giovedì 16 il comparto ha ceduto il 21,76%.
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Nella seduta del 16 marzo l’indice settoriale ha recuperato il 2,16% grazie a un poco convenzionale intervento di supporto in favore di First Republic Bank, che riceverà un afflusso di nuovi depositi da 30 miliardi di dollari provenienti da altre undici grandi banche americane coordinate dalle autorità federali. Una forma di solidarietà creativa che fa pensare a quanto la posta in gioco sia elevata: evitare sul nascere che alcuni depositi inizino ad essere colpiti, innescando un pericoloso fuggi fuggi dalle banche più vulnerabili. I primi nomi della lista li aveva messi in chiaro l’agenzia Moody’s, per la quale sono a rischio rating “spazzatura”, oltre a First Republic anche Zions, Western Alliance, Comerica, Umb Financial e Intrust Financial (i cui titoli azionari restano fortemente svalutati nonostante le reti di sicurezza messe in campo dalle Autorità Usa).
In Europa, hanno ribadito nuovamente in una nota del 17 marzo gli analisti di Bank of America, il sistema bancario è una situazione più solida: “L’esposizione delle banche alle obbligazioni negli ultimi anni, l’aumento delle disponibilità liquide e le perdite non realizzate relativamente modeste sui titoli”. Ciononostante, le azioni del comparto bancario europeo non hanno retto molto meglio in Borsa rispetto alle controparti statunitensi, con un calo da inizio marzo al 17 marzo superiore al 18,5%.