Si è riscontrata però negli ultimi anni una certa vivacità dell’Agenzia delle entrate sul tema, in occasione delle risposte a interpelli proposti dai contribuenti.
Una delle ultime pronunce è stata resa sul finire del 2021, in tema di detenzione di valute virtuali in digital wallet con possesso di chiavi private e relativi obblighi di monitoraggio fiscale (n. 788 del 2021).
In particolare, l’Agenzia ha fornito chiarimenti sull’inquadramento fiscale del prelievo delle criptovalute dai cosiddetti “wallet”, affermando che, ai fini Irpef per soggetti che detengono valute virtuali al di fuori dell’attività d’impresa, alle operazioni in valuta virtuale si applicano i principi generali che regolano le operazioni aventi a oggetto le valute tradizionali.
A fondamento della propria linea l’Agenzia ha posto il dettato sia dell’articolo 67, comma 1, lettera c-ter), Tuir, – a mente del quale costituiscono redditi diversi di natura finanziaria «le plusvalenze (…) realizzate mediante cessione a titolo oneroso (…), di valute estere, oggetto di cessione a termine o rivenienti da depositi o conti correnti (…). Agli effetti dell’applicazione della presente lettera si considera cessione a titolo oneroso anche il prelievo delle valute estere dal deposito o conto corrente» – sia del comma 1-ter della medesima disposizione laddove si specifica che «le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute estere rivenienti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che nel periodo d’imposta la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento sia superiore a cento milioni di lire (Ndr 51.645,69 euro) per almeno sette giorni lavorativi continui».
Sulla base di tali considerazioni, l’Agenzia ha ritenuto che le cessioni a termine di valute virtuali dovrebbero considerarsi sempre fiscalmente rilevanti, mentre le cessioni a pronti non darebbero, generalmente, origine a redditi imponibili.
Ciò essenzialmente perché – in tale prospettiva – verrebbe meno la finalità speculativa, eccezion fatta per il caso in cui la valuta ceduta derivi da prelievi da portafogli elettronici (wallet), per i quali la giacenza media superi un determinato controvalore per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta, ai sensi appunto del combinato disposto del comma 1, lettera c-ter), e del comma 1-ter dell’art. 67.
Quindi, secondo l’Amministrazione, il prelievo dai wallet sarebbe da considerarsi equiparabile a una cessione a titolo oneroso.
Il documento di prassi ora menzionato si inserisce in un contesto caratterizzato, come anticipato, da una serie di prese di posizione dell’Agenzia volte a chiarire – in assenza appunto di indicazioni normative – alcuni profili fiscali delle criptovalute. È grazie a esse che è possibile ricostruire una sorta di quadro d’insieme circa lo stato dell’arte relativo al tema che ci occupa.
In primo luogo, si è specificato che «le operazioni a pronti di valuta non generano redditi imponibili, mancando la finalità speculativa». In secondo luogo, e al contempo, si è avuto modo di chiarire che la circolazione dei bitcoin si fonda sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato, che, sulla base della fiducia, li ricevono come corrispettivo nello scambio di beni e servizi (dunque come vero e proprio «mezzo di pagamento») riconoscendone il valore di scambio; ancora, che in ossequio a quanto affermato dalla Corte di Giustizia (2014, caso Hedqvist), l’intermediazione di valute tradizionali con bitcoin, svolta in modo professionale e abituale, rileva ai fini Iva, Ires e Irap; infine, sotto il profilo Iva, che l’operazione si configura esente, ex art. 1 del decreto Iva.
Con la risposta a interpello 956-39/2018, ripresa da documenti di prassi successivi, poi, l’Agenzia ha affermato che «… ai fini delle imposte sul reddito delle persone fisiche che detengono bitcoin (o altre valute virtuali) … alle operazioni di conversione di valuta virtuale si applicano i principi generali che regolano le operazioni aventi ad oggetto valute tradizionali», traendone le dovute conseguenze.
Ora, in un simile panorama, dominato appunto dalle interpretazioni dell’Amministrazione, spicca – al di là della citata sentenza della Corte di Giustizia del 2014 – la sentenza del Tar Lazio sez. II, n. 1077/2020, la quale ha avuto modo di chiarire che “nel caso delle valute virtuali (…) l’Ivafe non è dovuta, dal momento che non si tratta di investimenti in depositi bancari”; “sono soggetti a tassazione come redditi diversi di natura finanziaria quelli derivanti dalle operazioni sul mercato Forex e Cfd ex art. 67, comma 1, lett. c-quater del Tuir”;
infine “se tali redditi sono percepiti da persona fisica al di fuori dell’esercizio di attività di impresa, sono soggetti ad imposta con aliquota sostitutiva del 26% e sono da indicarsi nel quadro Rt del relativo modello)”.
È dunque evidente come il rapporto tra operatività in criptovalute e diritto tributario sia, oggi, affidato non alle norme, ma esclusivamente alla casistica (prevalentemente di prassi, con qualche incursione della giurisprudenza). Se tale modo di procedere è inevitabile per un fenomeno nuovo (e dirompente!) quale quello di cui stiamo parlando, è altresì chiaro che da ciò discendano notevoli incertezze e dubbi per gli operatori, la soluzione dei quali sarebbe senz’altro di notevole aiuto.