L’Ocse ritiene sia arrivato il momento di obbligare le aziende più grandi a pagare le tasse dove si trovano i loro utenti e clienti e disciplinare la concorrenza fiscale a livello globale introducendo un’aliquota societaria minima
Le cornici normative che per anni hanno governato la disciplina della tassazione dei profitti delle imprese multinazionali, a fronte della digitalizzazione dell’economia e della globalizzazione, non sono più attuali e necessitano di importanti revisioni. Queste revisioni, ad avviso dell’Ocse, potrebbero portare alla fine dei paradisi fiscali
Il progetto è ancora in fieri ma, come emerge da un recente report rilasciato dall’Ocse (Addressing the tax challenges arising from the digitalisation of the economy), sono chiari i tempi per implementarlo: si presume che un accordo concreto sarà finalizzato dai 130 paesi aderenti per ottobre 2021; a seguire, entro la fine del 2021 verrà pubblicato un piano di attuazione dettagliato del progetto e saranno rese pubbliche le linee guida e un modello su cui sviluppare il trattato multilaterale che verrà sottoscritto dalle giurisdizioni partecipanti. Infine, si intende dare avvio definitivo al progetto a partire dal 2023.
Il target che verrà colpito dalle nuove regole è quello delle multinazionali (Mne, multinational enterprise), in particolare quelle che generano un fatturato globale superiore a 20 miliardi di euro e registrano una redditività superiore al 10% (ovvero utile ante imposte).
Le entrate prodotte dall’applicazione della global minimum corporate tax saranno distribuite a favore delle giurisdizioni in cui vengono utilizzati o consumanti i beni e i servizi. A tal riguardo, per meglio individuare l’area geografica di consumo/utilizzo saranno sviluppate regole dettagliate a seconda delle diverse categorie di operazioni poste in essere dalle società.
Come emerge dal report, le nuove regole incideranno anche sul fronte della doppia imposizione e degli adempimenti fiscali. Il fenomeno della doppia imposizione degli utili verrà risolto mediante una più capillare applicazione del metodo dell’esenzione e del credito di imposta; le multinazionali, inoltre, beneficeranno di procedure semplificate per gestire gli adempimenti e osservare i nuovi obblighi, nonché potranno con maggiore facilità aderire a procedure di risoluzione alternativa delle controversie.
Queste, infatti, si basano su accordi stipulati orami troppo tempo fa e, come tali, non più in grado di disciplinare i nuovi fenomeni discendenti dalla digitalizzazione dell’economia.
In effetti, sono almeno due i motivi che inducono a ritenere non più rimandabile una riforma profonda delle norme che governano la tassazione delle multinazionali.
In primo luogo, le norme esistenti devono essere aggiornate perché – in larga parte – prevedono che gli utili di una società straniera possano essere tassati solo nell’altro paese in cui la società straniera ha una presenza fisica. Ebbene, avverte l’Ocse, questa modalità poteva essere valida cento anni fa; ovverosia quando gli affari ruotavano attorno alle fabbriche, ai magazzini e si producevano quasi esclusivamente beni fisici. Oggi, nel mondo digitalizzato una simile cornice normativa è vetusta, in quanto le multinazionali conducono affari su larga scala, prescindendo dalla presenza fisica entro la giurisdizione in cui operano.
In secondo luogo, la maggior parte dei paesi tassa solo il reddito d’impresa nazionale delle proprie multinazionali, ma non quello estero, partendo dal presupposto che i profitti delle imprese estere saranno tassati dove vengono prodotti. Una simile circostanza prescinde dal dato (invece da tenere in considerazione) che negli ultimi venti anni c’è stata una crescita esponenziale di produzione di beni immateriali (come marchi, diritti d’autore e brevetti) a cui è seguita una crescita (altrettanto esponenziale) della capacità delle aziende di trasferire i profitti verso paesi a ridotta fiscalità.
In questo senso, grantire che le grandi multinazionali paghino le tasse dove effettivamente operano e nel luogo in cui realizzano profitti permetterebbe, avverte l’Ocse, di ridurre il fenomeno dell’elusione fiscale aziendale, che costa in media da 100 a 240 miliardi di dollari all’anno.
Verso la fine dei paradisi fiscali?
Alla luce di tutto quanto sopra, è lecito porsi questa domanda.
Ad avviso dell’Ocse, la principale conseguenza sul piano tributario dell’introduzione di queste nuove regole consiste nel fatto che i paradisi fiscali conosceranno per la prima volta un ostacolo effettivo al loro proliferare.
La riforma, così come è pensata, inciderà molto (e in senso positivo) sul fenomeno dell’erosione della base imponibile e della perdita di gettito dovuta al trasferimento di capitali verso giurisdizioni a fiscalità ridotta, di modo che le imprese multinazionali troveranno meno conveniente trasferirsi nei paradisi fiscali.