«Il maggior problema dell’arte non è la sua (mancanza di) trasparenza, ma l’inesplicabilità del suo valore». A parlare è Olivier Berger, cofondatore e ceo di Wondeur, tech company basata sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale per indagare le dinamiche di generazione del valore nel sistema dell’arte. L’occasione è quella del seminale ciclo di conferenze Art&Finance di Deloitte, in questo autunno 2022 tenutesi anche nella Città del Vaticano. «Cosa genera il valore dell’arte? Perché esso cambia nel tempo? Qual è il rischio da cui proteggersi? È questo il problema principale per ogni attore dell’ecosistema dell’arte», dichiara l’imprenditore. Una questione al cuore di ogni pre valutazione assicurativa, per esempio. Punto di riferimento della sua disquisizione è lo studio The Role of Cities in the US art system, Il ruolo delle città nel sistema dell’arte Usa, steso in collaborazione con Art Economics e Ubs.
Le città sono il cuore pulsante dell’ecosistema dell’arte
«Lo stesso wealth management non è in grado di gestire appieno l’arte-asset. I collezionisti comprano sempre al vertice del mercato (artisti blue chip, ndr), non assumendosi alcun rischio». Ciò vuol dire che «la maggior parte del patrimonio artistico è mal allocato, mal gestito, mal assicurato, illiquido; non viene sfruttato finanziariamente con meccanismi di leverage», come potrebbe. Il mondo dell’arte è simile a un ecosistema biologico: «È intelligente, altamente strutturato, autoregolato. Si affida alla collaborazione e all’interdipendenza. E le città sono il cuore pulsante dell’ecosistema dell’arte».
Perché?
In che modo le città contribuiscono al valore e alla significanza culturale degli artisti e degli asset? Innanzitutto, le città accolgono le istituzioni culturali. A scopo di lucro e non (for profit e non profit). Appartengono alla prima categoria gallerie commerciali, fiere d’arte, case d’asta. Delle seconde fanno parte – in base all’analisi di Wondeur – musei, biennali, centri culturali come le gallerie non profit, centri gestiti da artisti e gallerie universitarie. Esiste globalmente una rete di oltre 30.000 istituzioni. Tutte incidono in maniera importante e diversa nel supportare gli artisti, nel creare mercati e nel mantenere viva una cultura del collezionismo. Ciascuna di essere è spinta da motivazioni diverse: chi vuol vendere, chi vuol collezionare, chi vuol mostrare, chi promuovere. In ogni caso, ciascun ente decide autonomamente dall’altro: se e cosa acquistare, quando.
Il valore culturale di un artista e degli asset che egli produce però è determinato dalla somma di quelle decisioni. Solo che, l’impatto prodotto da ogni singola istituzione artistica è diverso nella qualità e nella quantità. Al contrario di quanto forse si potrebbe supporre, il potere nel determinare il successo di un artista non è concentrato. Le maggiori gallerie del mondo contano meno del 5%. Le aste, dal canto loro, non sono un motore del valore di lungo periodo degli asset per il 98% degli artisti. Lo studio suddivide gli artisti in: “star” (il 4% top del mercato degli artisti nati dopo il 1900); “celebrati”; “established” (in questa categoria lo studio presentato da Berger fa rientrare anche i midcareer); “emergenti” (il restante 84% – si noti che lo studio considera emergenti tutti quegli artisti – giovani o meno – sottorappresentati da musei e gallerie, con poche mostre in gallerie poco note.
Dalle star agli emergenti
Il focus di una galleria è determinato da quanti artisti appartenenti a ciascuna categoria essa ha promosso / esposto in un periodo, indipendentemente dal numero di mostre. Guardando al numero totale di mostre per il periodo 2017-2021, è emerso che le mostre degli artisti star si sono tenute per il 26% nelle gallerie commerciali; il 2% presso le fiere d’arte; il 31% nei centri culturali no profit; il 2% alle biennali; il 39% presso musei e fondazioni. Gli artisti “celebrati” sono stati esposti per il 30% dalle gallerie commerciali, poi: 2% fiere, 32% centri culturali no profit, 3% biennale, 33% musei e fondazioni. Established/midcareer: 32% gallerie commerciali, 2% fiere, 34% centri culturali no profit, 3% biennali, 29% musei e fondazioni. Emergenti: 36% gallerie, 2% fiere, centri culturali non 36%, biennali 2%, musei e fondazioni 24%.
Le città Usa nell’ecosistema dell’arte
Established e mid-career sono gli artisti più critici da promuovere: mancano dell’attrattiva che esercitano gli emergenti, e pure del fascino delle grandi stelle della storia dell’arte. Risulta quindi particolarmente critico il ruolo delle gallerie e delle istituzioni che supportano questo segmento del mercato dell’arte è dunque cruciale. In ciò New York – piazza principale al mondo per il mercato dell’arte – rivela il suo ruolo chiave. Benché sia la città principale per gli artisti blue chip, è pure il centro urbano che maggiormente promuove i midcareer, nonché quello con le gallerie con la maggiore propensione al rischio se si tratta di esporre le opere di artisti emergenti. Per contro, le gallerie di Los Angeles sono le più avverse al rischio. Tuttavia, i musei della città californiana espongono volentieri artisti poco conosciuti, similmente a quelli newyorkesi.
E le altre città? Chicago vanta la scena artistica con la maggiore diversità di genere. La percentuale di artiste donne in tutte le gallerie commerciali è stata – nel quinquennio considerato – del 43%. A Miami, per dire, è stata del 28%. Tuttavia Miami si è distinta per essere stata l’unica città in cui le artiste emergenti avevano più probabilità di essere esposte per la prima volta rispetto ai loro coetanei maschi sia nei musei che nelle gallerie commerciali. Nessuna menzione per l’Italia? Si, quella di Milano. Le gallerie del capoluogo lombardo ricercano principalmente il successo commerciale, mentre i centri non profit sono maggiormente propensi al rischio e alla sperimentazione.