Due ex sustainable investment executive (Tariq Fancy di BlackRock e Desiree Fixler di Dws Group) hanno dichiarato pubblicamente che i loro datori di lavoro utilizzavano “solo a parole” le metriche esg
Secondo Kate Mackenzie di Bloomberg Green, comprendere in che modo incanalare le risorse green verso i paesi in via di sviluppo è solo una parte del puzzle della decarbonizzazione
Andare oltre l’etichetta
“Lo spettro del greenwashing aleggiava su un’infinita gamma di prodotti e servizi lanciati quest’anno e rivolti alla clientela attenta al clima”, osserva Mackenzie. “Eppure, poche aziende sembrano disposte o in grado di risolvere il problema”. L’editorialista ricorda come due ex sustainable investment executive (Tariq Fancy di BlackRock e Desiree Fixler di Dws Group, ramo di asset management controllato all’80% da Deutsche Bank) hanno dichiarato pubblicamente che i loro datori di lavoro stavano utilizzando “solo a parole” le metriche esg. “Fixler ha denunciato che Dws non disponeva di un metodo solido per valutare la sostenibilità delle aziende, contrariamente a quanto affermato pubblicamente dal gestore patrimoniale. Affermazioni che sono ora oggetto di indagine da parte dell’autorità di regolamentazione finanziaria tedesca”, racconta Mackenzie. Fancy, invece, ha dichiarato che BlackRock commercializzava i propri prodotti d’investimento etichettati come sostenibili “come una forza positiva per il mondo pur riconoscendo internamente che non facessero molta differenza”.
Cambiare dall’interno
Le critiche di Fancy, secondo Mackenzie, si basano sul presupposto che l’obiettivo sia “fare del bene” piuttosto che gestire semplicemente i rischi esg del portafoglio. Perché, dopotutto, i clienti “si aspettano che i prodotti finanziari commercializzati come sostenibili o incentrati sul clima promuovano attivamente comportamenti aziendali più ecologici”. Stando a un sondaggio pubblicato da Create Research, infatti, la maggior parte dei proprietari o dei gestori di asset “sentono il dovere di rendere il mondo un posto migliore”, continua Mackenzie, e credono sia importante spingere le aziende ad adottare comportamenti realmente utili a contribuire alla lotta al climate change. Un lavoro di gestione considerato da Mackenzie “molto diverso” ma anche “più difficile” rispetto “al semplice acquisto o alla semplice vendita di azioni”.
Le normative
Quanto all’azione delle autorità finanziarie, secondo l’editorialista alcuni anni fa c’era la speranza che potessero fare qualche progresso laddove le politiche pubbliche avevano fallito. Ma a distanza di quasi cinque anni dalla nascita della task force sull’informativa finanziaria, per l’esperta la realtà è che molti “responsabili politici sono rimasti impantanati nella lunga ricerca di dati migliori”. E, parallelamente, la stessa politica continuerebbe a frenare una più forte regolamentazione per il clima. Il che renderebbe anche più complesso per l’economia globale ridurre la propria dipendenza dai combustibili fossibili.
Dove vanno i fondi green
Un ultimo tema da considerare riguarda i trilioni di dollari necessari a finanziare la transizione verso l’energia pulita e fronteggiare condizioni metereologiche sempre più estreme. Secondo Mackenzie, comprendere in che modo incanalare queste risorse verso i paesi in via di sviluppo è solo una parte del “puzzle della decarbonizzazione”. Uno dei temi principali da affrontare è in che misura queste risorse dovrebbero provenire dai governi e in che misura dal settore privato. “Sebbene gli investitori siano favorevoli a progetti di energia pulita, la maggior parte delle misure di adattamento (necessarie a proteggersi dagli effetti del climate change) non generano alcun flusso di entrate”. Per fare la differenza, conclude Mackenzie, “leader e decisori dovrebbero abbracciare approcci dirompenti che rompano davvero con il passato”. In caso contrario, ci incammineremo “verso una dolorosa resa dei conti su ciò che si può davvero ottenere con la finanza”.