“A me non piace parlare di collezione, non mi definisco un collezionista, il collezionista è secondo me una persona che pensa molto ad accumulare e ‘mettere via’: a me invece piace mostrare le opere, studiarle, ricercarle e condividerle”. Queste le parole di Antonio Dalle Nogare, appassionato amante dell’arte contemporanea e fondatore della Fondazione Antonio Dalle Nogare.
La fondazione risiede all’interno di un edificio architettonico che si presenta come un’opera di rilievo ambientale ed estetico, fortemente voluta da Antonio per regalare alla città di Bolzano uno splendido luogo di aggregazione, cultura e arte, dove poter ammirare le meravigliose opere d’arte da lui selezionate.
La struttura architettonica
La struttura architettonica che ospita la fondazione, si affaccia sulla città di Bolzano incastonata in una parete rocciosa. Il progetto è stato realizzato dall’architetto Walter Angonese affiancato dal collega Andrea Marastoni, la scelta è stata quella di dar vita a un luogo in cui la dimensione domestica e quella museale potessero convivere. Le sale espositive sono state realizzate scavando all’interno della roccia della montagna, il porfido estratto è stato rimodellato successivamente per realizzare la casa Museo.
Uno dei punti di interesse della Fondazione è la meravigliosa biblioteca dove si trovano raccolti e catalogati 1200 volumi di arte contemporanea consultabili in loco da chi ne avesse necessità o curiosità.
Quello che si respira all’interno di questo gioiello è amore e cura per i dettagli. La Fondazione organizza due mostre annuali dove si possono ammirare capolavori di artisti di fama mondiale come Christo, Piero Manzoniannis Kounellis, Jannis Kounellis, e presenta inoltre un calendario di attività come talk, incontri con artisti italiani e internazionali e residenze per artisti senza limiti di età e provenienza; il prossimo artista in residenza arriverà dall’argentina e successivamente sarà ospite un’artista importantissima americana che vive fra NY e L.A. di cui ancora non sveliamo il nome.
Il team
Fanno parte del team della fondazione il curatore Andrea Viliani e la curatrice della collezione Eva Brioschi. Anche dal punto di vista logistico la fondazione è organizzata in modo informale e familiare, “nessun lungo e noioso consiglio di amministrazione, molto spesso mentre siamo in macchina assieme ai curatori ci confrontiamo con lunghe chiacchierate e finalizziamo il calendario dei nostri eventi”, mi racconta Antonio. Quello di Antonio per l’arte è un amore con la A maiuscola, la sua è una ricerca della bellezza in senso profondo, autentico e concettuale: “dopo aver capito l’influenza che l’arte ha su di me, il modo in cui è in grado di cambiarmi, di rendermi più empatico, più aperto mentalmente, ho sentito la necessità di creare un luogo per poter permettere anche ad altre persone di vivere la mia stessa esperienza”.
Le mostre
“Ri-Materializzazione del Linguaggio 1978-2022” è il titolo dell’ultima mostra da poco inaugurata alla fondazione, curata da Cristina Perrella, Andrea Viliani e Vittoria Pavesi, che sarà aperta fino al 03/06/2023. L’esposizione vede la partecipazione di 93 artiste con 203 opere, il tutto arricchito da un calendario di eventi aperto al pubblico organizzati da fondazione live nei quali saranno ospiti a turno 4 artiste invitate in fondazione a performare in relazione alla mostra, la prima artista accolta è stata Tomaso Binga che ha performato per il pubblico presente, le prossime artiste in calendario saranno Monica Bonvicini, Brache L. Ettinger e Nora Turato.
Ho avuto il grande piacere di poter incontrare Antonio nella sua meravigliosa fondazione ed avere uno scambio con lui: di seguito il nostro confronto.
Antonio Dalle Nogare fotografato da Luca Meneghel
Quando comincia la tua passione per l’arte?
Vorrei fare una premessa: il mio sogno era quello di essere un tennista. Dall’età di 6 anni fino ai 20 la mia vita ha ruotato attorno al tennis dove giocavo come professionista, ho giocato in nazionale, viaggiando per il mondo, un piccolo bambino lavoratore tennista. Arrivato ai 20 anni ho smesso di giocare, in quel momento storico nel mondo del tennis se a 20 anni non ti eri ancora classificato fra i primi 100 al mondo significava non avere futuro, spinto anche dai miei genitori abbandonai la carriera di tennista e questo mio sogno si infranse.
Non mi piaceva studiare, non mi piaceva lavorare, ero alla ricerca della mia strada così mio padre mi convinse a subentrare nella nostra azienda di famiglia e smisi di studiare.
Cominciai a lavorare per mio padre nell’azienda di marmi, ma non mi piaceva, ci occupavamo di lapidi e la ripetitività di questo lavoro proprio non mi stimolava, avevo bisogno di dinamicità. A quel punto decisi di provare a fare il maestro di tennis, l’avventura durò 10 mesi, poi mi stancai e capii che era meglio tornare a lavorare con mio padre. In quegli anni, mio padre aveva una piccola partecipazione in una società immobiliare con altri 6 soci che costruiva case in Alto Adige, così decisi di fare una prova in quel settore e finalmente capii cosa mi piaceva: “costruire”. Costruii dunque la prima casa e con gli incassi della vendita comprai la mia prima opera d’arte e da li cominciò la mia passione.
Qual è la prima opera che hai acquistato e a che età?
Con i soldi guadagnati costruendo la prima casa, comprai la mia prima opera d’arte, avevo circa 23 anni, si trattava di un’opera di Hans Josef, un artista locale altoatesino dell’area austriaca, con una storia stranissima, nato austriaco e morto italiano. La storia dell’Alto Adige dal punto di vista etnico, politico ed economico è infatti molto particolare.
Un artista che è stato in residenza da noi ha sviluppato un lavoro proprio su questo tema. L’installazione presentava la sala espositiva riempita di polvere di marmo a creare delle dune, al cui centro era collocato un cavalletto in legno per pittura, che stava a rappresentare la storia dell’artista Hans Josef e della sua vita a cavallo fra Austria e Italia, mettendo così in luce il problema etnico di confine.
Come scegli le opere per la tua collezione? Hai una strategia o ti affidi al tuo intuito e gusto?
La mia è una scelta sia emotiva che mentale, lo spirito della collezione e della fondazione è concettuale, l’arte che sento appartenermi è proprio l’arte concettuale specialmente degli anni 60’-70’, sono attratto da opere di questo tipo, mi capita anche di avere il colpo di fulmine, vedere un’opera e sentire che mi appartiene da subito.
Che rapporto hai con gli artisti?
Con gli artisti mi piace molto creare un rapporto, spesso anche assieme a mio figlio che adesso lavora qui, organizziamo visite negli studi degli artisti, oppure li invitiamo in Fondazione, sia per le residenze che per incontri. Trovo sia importante intrattenere relazioni umane con l’artista, non è solo l’opera che conta, ma conta tutto il mondo che c’è attorno all’opera, forse anche di più dell’opera stessa, è importante capire bene cosa l’artista vuole esprimere con la propria arte. Per me l’estetica e la bellezza vengono dopo, a differenza di molti collezionisti che invece acquistano solo oli su tela perché sono belli, il quadro rosso che sta bene sopra al divano, o l’opera facilmente rivendibile. Questo modo di approcciarsi alle opere per me uccide l’arte. Quello che mi interessa è capire se dietro all’opera c’è un contenuto forte, questa è la prima cosa che guardo.
Mirella Bentivoglio, Fiore nero (1971)
Collezione Premio Termoli MACTE – Foto Gianluca Di Ioia
Investi anche su giovani artisti emergenti?
La maggior parte dei collezionisti collezionano sulla base dell’investimento (investo in arte emergente perché posso guadagnarci). Questo meccanismo fa si che si crei una specie di “moda”, uno va alle fiere va alle gallerie, parla col gallerista, col curatore che comincia a consigliargli un artista giovane piuttosto che un altro, e tutti comprano lo stesso artista perché in quel momento questo artista sembra il più promettente e poi spesso queste cose sono bolle di sapone fatte per speculazione. Questa visione proprio non mi appartiene. Io mi interesso ai giovani artisti di matrice concettuale sempre con lo stesso approccio di valore e contenuto che mi fa appassionare.
Raccontami come è nato il progetto della Fondazione: oltre ad essere uno spazio espositivo è anche una meravigliosa struttura architettonica. Sempre più stiamo notando contaminazioni fra arte, design e architettura, credi che queste materie possano/debbano dialogare fra loro e in che modo?
La Fondazione nasce nel 2017/18, si tratta di un progetto a tutto tondo pensato come un museo e progettato e costruito appositamente per ospitare la Fondazione. La mia richiesta all’architetto è stata proprio quella di costruire uno “spazio per l’arte”. Ovviamente io ho messo la mia visione in ogni dettaglio, ogni elemento è stato progettato, disegnato e realizzato su misura.
Arte, architettura e design sono tre discipline molto legate, secondo me le tre si intrecceranno sempre ma è importante mantenere l’autonomia dell’arte, cioè la sua non funzionalità pratica.
La funzione dell’arte è quella di accrescere l’anima, noi forse questa non la riteniamo una funzione, ma invece lo è ed è di fondamentale importanza. Per me l’arte non può assolutamente essere parificata all’oggetto di design ed essere acquistata perché sta bene col divano, l’arte non può diventare oggetto decorativo. Per esempio questo quadro che vedi qui in biblioteca molti potrebbero scambiarlo per un quadro di un bambino e dire: “lo so fare anch’io”, si tratta di un’opera di Olivier Mosset che è stato anche qui da noi ospite in fondazione, lui insieme ad altri tre artisti: Daniel Buren, Michel Parmentier e Niele Toroni fondano il gruppo BMPT con il fine di decostruire il sistema della pittura arrivando “all’azzeramento”, facendo volutamente dei quadri elementari “quadri che potrebbero fare tutti”. Buren ad esempio comprava delle tele già dipinte, e pitturava a pennello la prima striscia verticale a sinistra e la prima striscia a destra, Parmentier adottava invece la tecnica delle pieghe piegando la tela, con dei chiodi fissava le pieghe, pitturava e poi riapriva la tela creando così delle strisce orizzontali, Toroni invece posizionava il pennello sulla tela lasciando impronte a distanza di 32 cm.
La cosa interessante è che sono molto attratto da artisti che in qualche modo contestano il mondo dell’arte, che protestano contro il mercato dell’arte, contro i suoi meccanismi costruiti.
Duchamp è colui dal quale è iniziato tutto, io sono attratto dalla voce fuori dal coro che contesta questo sistema speculativo ed egoico.
Il vero collezionista è quello che lo fa per amore e passione personale.
Things/Thoughts, Installation view; Ph. Ju?rgen Eheim Fotostudio 6
Con la tua fondazione hai aperto le porte alla città di Bolzano e non solo, dando la possibilità al pubblico di fruire la tua collezione. Credi che il ruolo del collezionista sia anche quello di “condividere” per creare occasioni d’incontro e scambio?
A me non piace parlare di collezione, non mi definisco un collezionista, il collezionista è secondo me una persona che pensa molto a collezionare e mettere via, a me invece piace condividere le opere, studiarle, ricercarle, mi definirei dunque fondatore di una collezione.
La Fondazione deve creare aggregazione con gli autoctoni appassionati d’arte e non, qui le porte sono sempre aperte a tutti.
C’è un’opera a cui tieni in modo particolare?
Sì, si tratta dell’opera di Roman Opalka che si trova nella mostra presente ora nella sala di sotto. Quest’artista nel 65’ ha cominciato a dipingere delle tele della stessa dimensione della porta del suo atelier, iniziando con un piccolo pennellino a trascrivere i numeri dall’1 in poi, i numeri venivano dipinti su una tele di colore nero e ad ogni quadro successivo l’artista aggiungeva una piccola percentuale di bianco al nero dello sfondo, calcolando che nell’ora della sua morte il quadro sarebbe diventato tutto bianco. Dopo aver finito ogni quadro l’artista si metteva a fianco all’opera e si faceva una foto autoritratto con la camicia bianca. Opalka cominciò questo processo fotografico nel 65’, ancora giovane, nel corso degli anni si notano tutte le fasi dell’invecchiamento fino ad arrivare alla morte. Questo parla molto del concetto del tempo, dell’invecchiamento e della morte. Lo trovo un lavoro molto profondo e autentico.
Tomaso Binga, Alfabetiere Murale
Courtesy Galleria Tiziana Di Caro e Archivio Tomaso Binga