Negli ultimi giorni di fine 2022 si è assisto a profondi mutamenti sui mercati finanziari – e non solo – che hanno contribuito a ridefinire la maggior parte dei portafogli di investimento. I risultati parziali (con i dati disponibili al 23 dicembre) disegnano uno scenario quasi apocalittico, soprattutto se letto alla luce dei trend precedentemente in essere.
Il ranking dei principali listini azionari per performance in valuta è dominato dall’Istanbul National 100 che nell’anno triplica il suo valore (+193%), seguito da poche piazze con timidi allunghi (Oslo a +5%, Singapore a +4,70%…) e da un lungo elenco di segni negativi, con perdite che raggiungono rapidamente la doppia cifra. Solo il 27% dei listini considerati è in positivo e il rendimento medio è solo di poco in rosso, grazie all’impetuoso rally della Turchia.
Andamento dei prodotti del risparmio gestito di tipo azionario
L’overview sugli indici di categoria calcolati sui prodotti del risparmio gestito di tipo azionario a specializzazione geografica disegnano un quadro ancor meno rassicurante. Anche qua l’Asia Minore è sugli scudi, a +122%, mentre il rendimento medio è del -13%. Anche le specializzazioni settoriali subiscono in media pessanti affondi, con solo energia, risorse naturali e metalli e minerali in positivo.
Andamento dei prodotti monetari
Molto interessante è il quadro sui prodotti obbligazionari: tra questi, gli strumenti a brevissimo termine che investono in attivi del mercato monetario occupano la prima parte della classifica, con risultati in alcuni casi più che soddisfacenti.
Ad aprire il ranking sono infatti i monetari dollaro Usa che nell’anno allungano del 7,38%, sopportando una volatilità del 9% – non proprio trascurabile – ma anche una perdita massima del 9%, piuttosto contenuta rispetto alle altre categorie. Degna di nota è anche la performance dei monetari franco svizzero, che con un bel +3,51% si collocano al quarto posto e riportano una perdita massima di appena il 5%.
I monetari euro e sterlina scivolano sotto la parità, ma sempre nella top ten e con livelli di rischiosità contenuti.
L’investimento diretto in strumenti del mercato monetario è in parte precluso all’investitore retail. Per definizione, sono contemplati gli attivi con scadenze che vanno dall’overnight fino all’anno: ne consegue che, ad esclusione dei Bot e simili, avvalersi di un intermediario istituzionale come fondi ed Etf è la scelta elettiva per esporsi in modo diversificato a un mercato costituito per la maggior parte da quello interbancario, percepito tra i più sicuri, liquidi e capace di addolcire le dinamiche del Forex, al quale è legato a doppio filo, ma con numerosi meccanismi correttivi.
L’analisi congiunta con le dinamiche del mercato valutario aiuta a coglierne le potenzialità. Nell’anno corrente l’Euro risulta in lieve apprezzamento rispetto alle altre principali monete, grazie soprattutto ai consistenti allunghi posti in essere sul Peso argentino (+60%) e sulla Lira turca (+31%). Saltano all’occhio l’apprezzamento sullo Yen giapponese (+7,76%), Sterlina inglese (+4,70%), mentre contro il biglietto verde la moneta unica risolta in flessione del 6,60%, come anche contro il Franco svizzero (-4,42%).
Risulta quindi evidente che, in qualche caso, la gestione attiva contribuisce a generare un ritorno interessante all’investimento diretto nelle altre valute: non solo, a questa prima rudimentale analisi è necessario aggiungere qualche riflessione sul costo addizionale dell’investimento diretto in valuta, rispetto alla performance dei prodotti del risparmio gestito che, ricordiamo, è già al netto delle spese correnti, di gestione e di transazione.
Le politiche monetarie delle varie banche centrali
Con un occhio all’anno che sta per aprirsi, è opportuno ricordare che i movimenti consistenti registrati sul mercato dei cambi sono principalmente da imputarsi allo sviluppo delle politiche monetarie delle varie banche centrali, che nel 2022 sono state incredibilmente attive.
La Federal reserve, ad esempio, che a gennaio confermava i tassi allo 0,25%, ha attuato ben sette rialzi per arrivare all’attuale 4,5%.
Più timida, ma non meno corraggiosa, è stata l’azione della Banca centrale europea (Bce), che iniziava il 2022 con il costo del denaro a zero per poi, nella seconda parte dell’anno, mettere in atto quattro ritocchi e giungere al 2,5%.
Anche la Banca nazionale svizzera, ancora con tassi negativi (-0,75%) ha portato il costo in positivo all’1%.
In controtendenza troviamo la Bank of Japan, che mantiene i tassi a -0,1%, la Banca popolare cinese che abbassa da 3,70% a 3,65% e la Banca centrale russa che, seppur oggi, abbia tassi più bassi che a inizio anno, ha dovuto aumentare al 20% contestualmente all’inizio del conflitto armato.
Il driver della banche centrali: l’inflazione
Il driver che guida le banche centrali è ovviamente l’inflazione, fenomeno nato ben prima dello scoppio della guerra, ma che con questa ha trovato parecchio ossigeno per alimentarsi. Il ruolo delle banche centrali è, come sempre, crucialo e incredibilmente delicato: pur avvalendosi di team specializzati nella rilevazione puntuale del fenomeno inflattivo, cogliere le dinamiche di manifestazioni tanto complesse, sfaccettate e variegate da spesso luogo a risultati discordanti.
La strategia elettiva per contenere l’esplosione del costo della vita è quello di generare una recessione, si spera contenuta e controllata, cercando di far scontare il più possibile l’aumento dei tassi sui mercati mobiliari e solo secondariamente sull’economia reale.
Si ricorda inoltre che le cause dell’inflazione sono molteplici, e tra vecchio e nuovo continente profondamente diverse: mentre negli Usa si potrebbe tentare di rispondere all’eccesso di domanda (data dalla piena occupazione) con la creazione di ulteriore offerta (strada in un certo senso innovativa), in Europa sarà necessario coadiuvare la politica monetaria con azioni congiunte di spesa pubblica per contenere l’aumento del costo delle materie prime, nonchè creare nuove filiere e canali di approvvigionamento. Un percorso lungo e tortuoso che potrebbe rappresentare un banco di prova di portata mai vista prima per la tenuta dell’Unione.
Utopico pensare che la diversificazione, da sola, possa fornire uno scudo sicuro per il rispamiatore retail prudente o moderato in un periodo tanto ostico come il 2022, in cui anche la liquidazione degli attivi avrebbe dato luogo alla corrosione dell’inflazione.
La storia però fornisce numerosi motivi per guardare con ottimismo al 2023. Solitamente le crisi profonde hanno una durata contenuta, e già nell’ultimo trimestre 2022 abbiamo visto configurarsi uno scenario più roseo con le potenzialità per generare un’inversione di tendenza. Ritornare a mercato, con un’occhio puntato alla qualità degli attivi per gli asset di medio lungo termine e l’altro sulle occasioni di speculazione che sembrano non mancare, potrebbe regalare soddisfazioni entro la fine del 2023.
(Articolo scritto in collaborazione tra Luca Lodi, head of R&D Fida, e Monica Zerbinati, financial analyst Fida)