I mercati sono alle prese con l’inflazione, ma l’aumento dei prezzi a Wall Street a volte ha causato ribassi, altre rialzi. Ecco alcune lezioni del passato da tenere a mente
Il Wall Street Journal ha analizzato i casi d’inflazione dal secondo dopo guerra ad oggi, per capire quali sono i possibili effetti borsistici del ritorno dell’inflazione
Dopo la seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni’60, le azioni sono andate bene nonostante l’inflazione, cosa che non è avvenuta, sempre in un contesto inflativo, negli anni ‘70
Negli Stati Uniti un’inflazione così non si vedeva dagli anni ottanta. Allora alla Fed c’era Paul Volcker, il nemico numero uno dell’aumento fuori controllo dei prezzi. Volcker si fece autore di una stretta sui tassi che colpì duramente l’economia all’inizio ma che al contempo inaugurò decenni di ripetuti rally di azioni e obbligazioni. A quel tempo si arrivava da una decade segnata dalla stagflazione e l’aumento dei prezzi causati dal rincaro del greggio era tutto fuorché benefico, anche per i mercati. Tuttavia, ci sono stati altri periodi, come il secondo dopo guerra, in cui l’inflazione si accompagnò a un periodo di crescita felice degli indici azionari. A quale inflazione è più simile quella odierna?
A fare il punto su come l’inflazione governa le performance del mercato è un articolo del Wall Street Journal, che osserva come il premio per il rischio pagato dalle azioni, è un buon indice per valutare l’impatto dell’inflazione in borsa. L’inflazione del secondo dopo guerra era un’inflazione dovuta al fatto che i controlli sui prezzi erano stati eliminati e la ricostruzione “imponeva” una crescita economica superiore. Al contempo in borsa affluivano sempre più capitali come i fondi pensioni e altri investitori istituzionali compravano per la prima volta azioni. Ciò portò il premio per il rischio pagato dalle azioni (misura degli extra rendimenti richiesti dagli investitori azionari rispetto ai titoli di stato) ad assottigliarsi. Le cose cambiarono dalla metà degli anni ’60, quando si aprì un divario tra la crescita reale e l’influenza dell’inflazione. L’ingente spesa dovuta alla guerra in Vietman e alla Grande Società promossa dal presidente Lyndon, connessa a un ambiente di tassi bassi, provocò un forte aumento della massa monetaria. L’economia si surriscaldò e l’output-gap, sulla scia di una domanda sempre più sostenuta, diventò negativo.
Mentre l’inflazione aumentava, la forza lavoro cresceva e la gente chiedeva salari più alti. A ciò si aggiunse nel 1971 la sospensione per mano di Nixon della convertibilità del dollaro in oro. Il biglietto verde divenne molto volatile, alimentando prezzi di importazione più alti. Ciò acuì la dinamica inflativa, rendendola più imprevedibile. Come se non bastasse, molti paesi arabi bloccarono le esportazioni di greggio verso gli Stati Uniti per protestare contro il sostegno americano a Israele, provocando il primo shock petrolifero. La conseguente incertezza in borsa si concretizzò in un aumento del premio per il rischio richiesto dagli investitori e in un decennio di performance avare.
Ad oggi secondo l’analisi del WSJ, il premio per il rischio è alto, lasciando le azioni senza un grande cuscino contro l’incertezza. Inoltre, l’amministrazione Biden è determinata a stimolare l’economia e a ridurre la disoccupazione. Ma a differenza della metà degli anni ’60, l’output gap non è ancora stato chiuso. In questo contesto il ruolo della Fed è fondamentale. L’autorità monetaria statunitense potrà evitare un surriscaldamento dell’economia solo se la recente rapida crescita dell’offerta di denaro si correggesse rapidamente ad un livello molto più basso come avvenuto nel dopoguerra. Se così non dovesse essere, a livello di investimento rimanere posizionati sui settori ciclici potrebbe essere la scelta ottimale. Alla fine degli anni ’70 furono proprio queste aziende – da quelle chimiche alle compagnie aeree – ad ottenere i risultati migliori.
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