La scalata verso il surriscaldamento globale e le zone più a rischio
Il luglio 2019 è stato il mese più caldo della storia. “Non sappiamo ancora del 2019 nel suo complesso”. La classifica degli anni più torridi della storia umana al momento è questo: 2016, 2015, 2017, 2018, 2014.
Il surriscaldamento globale sta avendo e avrà un impatto pesante in termini di perdita di crescita economica, di punti di Pil. E’ un fatto: i posti più caldi del mondo perderanno moltissimo in termini di ricchezza, quelli freddi non molto. Ad essere penalizzati in termini di perdita economica saranno Africa, Brasile, Sudamerica. Ma anche India, Messico, Usa e Cina: nel Dragone in particolare le emissioni sono cresciute del 3 4 % quest’anno [appare curiosa la concomitanza con il rallentamento della crescita del Pil]. Nel Sud Europa l’impatto sarà quattro volte maggiore rispetto al nord. Geografia ed economia sono state sempre storicamente legate. Il clima caldo aumenta le disparità sociali. Lo stesso vale in Italia: a patirne sono e saranno soprattutto zone come la Sicilia sud orientale, la Calabria soprattutto. Ma anche Salento, costa toscana, la zona di Napoli.
“Dobbiamo ridurre le emissioni di C02 a livello globale. Un americano medio consuma 20 tonnellate di C02 all’anno, un europeo, meno della metà”.
Il dilemma energetico: transizione vs impatto
Non si può però privare il mondo dell’energia che serve a farlo vivere. 2 miliardi d persone attualmente non hanno accesso all’energia. E contribuiscono al 5% delle emissioni del pianeta. Bisogna cambiare le fonti di approvvigionamento, ma disinvestire non è facile: i capitali investiti nel settore energetico durano tanto. Una centrale del carbone dura 40 50 anni, gli investimenti nel comparto fossile sono pari a 1000 miliardi di dollari all’anno, metà del Pil italiano. E’ che le fonti fossili sono in continuo aumento: si scoprono sempre più giacimenti di petrolio, gas, carbone. E’ una ricchezza che dovrebbe restare sotto terra, pena la rovina del pianeta. Le imprese dal canto loro sono fra l’incudine e il martello: si trovano di fronte ad un aumento dei rischi (il cosiddetto climate VAR), nuovi, profondi e non ben capiti.
E’ il contrasto fra impatto fisico dei cambiamenti climatici e necessità di “fare qualcosa” a livello di transizione energetica. L’ Industria è uno degli attori principali sia nella transizione energetica che nella gestione degli impatti fisici. E’ necessaria una rapida soluzione all’effetto serra dei gas. Le rinnovabili (solare ed eolico), per fortuna, sono cresciute moltissimo negli ultimi 10 anni. Ed esistono strategie di resilienza win win, come ad esempio l’integrazione fra digitalizzazione e risparmio energetico: vi sono per dire app che dicono quanta C02 c’è nella spesa appena fatta. Ma ad oggi le grandi imprese non hanno un piano di azione per affrontare il rischio climatico. Ne ha parlato il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney in un
articolo. L’Europa ha provato a regolamentare l’aviazione, in parte riuscendoci. Spesso la questione è più politica che economica: si pensi a Saudi Aramco. Ha il fatturato di Apple e Google messe insieme.
Più il contesto degli attori in gioco è frammentato, più il rischio di opportunismo sale. La spinta alla concentrazione economica è perciò potente. Servirebbe allora un modello kantiano di mercato universale? La “semplice” coscienza individuale di cittadino planetario? Filosofia a parte, ogni piccolo passo è un guadagno, perché “ogni emissione risparmiata è un’emissione vinta”.