Private equity e leveraged buy out
Le cronache finanziarie, ad onor del vero, narrano di come le terminologie di private equity e leveraged buy-out siano intrinsecamente interconnesse. Negli anni ’80, quando il private equity, o meglio i leveraged buy-out assursero agli onori delle cronache finanziarie e della cinematografia mondiale, la “corporate America” (ovvero l’America delle grandi società, ricche di riserve di cassa e di asset sottoutilizzati ma dalla governance subottimale), divenne il target di scalate o takeover ostili da parte di corporate raider.
Questi operatori, dai nomi facilmente riconoscibili di Kohlberg, Kravis e Roberts (fondatori del gruppo KKR), Boone Pickens o Ichan, per fare qualche esempio, operavano approntando veicoli di investimento in cui il 10-15% del prezzo per l’acquisizione della società target era strutturato come capitale azionario di rischio e il resto come debito. In questo periodo sorse agli onori della cronaca Michael Milken, l’inventore dei “junk bond”, definiti spazzatura per la loro elevata rischiosità, o meno peggiorativamente titoli high yield, speculativi o non-investment grade, in quanto le agenzie di rating non ritenevano che potessero assicurare il pagamento di interessi e capitale iniziale, per la complessità delle operazioni in cui quei fondi erano impiegati. Le società target dei buyout erano acquisite con questi veicoli a leva finanziaria elevata con l’obiettivo di vendere aggressivamente gli asset non-core, usare la cassa per ridurre il debito e rivendere la società acquisita con un importante profitto, usando apparentemente solo l’ingegneria finanziaria.
“Ferro azzurro ama Anacott Acciaio”
Pochi della mia generazione non ricordano l’interpretazione del personaggio più rappresentativo di quell’epoca, Gordon Gekko del film “Wall Street” magistralmente impersonato da Michael Douglas. Per chi non ha visto il film, più giovane o meno interessato ai tempi, questo post potrebbe essere una buona scusa per una sua visione che offre contesto romanzato a uno dei momenti più importanti della storia della finanza mondiale.
Il private equity, ma anche le obbligazioni high yield di oggi, sono l’evoluzione dei passi pionieristici e avventurieri di quei tempi. Nel 1989, Kohlberg, Kravis e Roberts (Kkr) portarono a compimento, dopo una lunga e complessa battaglia finanziaria che vide schierate le principali banche d’affari americane sui due lati, l’acquisizione della Rjr Nabisco per 25 miliardi di dollari – a lungo il più costoso buyout della storia. Per la cronaca, stando alle fonti pubbliche, Kkr risulta aver perso 700 milioni di dollari alla cessione della partecipazione. A questa vicenda si deve l’epiteto di “Barbarians at the Gate” attribuito nel tempo ai fondi di private equity, per il titolo omonimo di un libro di giornalisti del Wall Street Journal, anch’esso poi adattato a film.
A seguito di questi eventi e della loro caratterizzazione, gli operatori di leveraged buyout si sono visti addossare, a torto o ragione, la reputazione di avvoltoio. A questo fatto ha contribuito anche l’ascesa vorticosa dell’utilizzo dei junk bond, la crisi delle loro quotazioni del 1989 e la bancarotta della banca Drexel Burnham, per cui Micheal Milken venne incriminato e perseguito da un allora giovane e ambizioso avvocato del Southern District di New York, Rudi Guliani. Il processo e la sua drammatica conclusione che vide Milken condannato a una pena severa ebbe ampia eco mediatica.
Il leveraged buy-out aveva ormai assunto una connotazione troppo negativa, per cui, dopo questi fatti e con l’evoluzione degli anni ‘90 di varie tipologie di approccio all’investimento, l’industria ha dovuto adeguarsi e trovare una ridefinizione nel nome più ampio e comprensivo di private equity.
Tanto per dare un senso dell’importanza della vicenda, vale ricordare che in Italia fino al 2003 il leveraged buy-out non era consentito in base all’articolo 2358 del codice civile, che proibiva di accordare prestiti o concedere finanziamenti per l’acquisto di proprie azioni. Il nuovo diritto societario ha riformato la norma rendendolo possibile, a condizione che esperti attestino la ragionevolezza dell’operazione.
La valenza del leverage
L’inizio del dibattito sull’importanza della leva finanziaria può essere ricondotto a un articolo accademico del 1958 in cui venne formulato il teorema di Modigliani-Miller, che costituisce la base della moderna teoria della struttura del capitale e che valse a Franco Modigliani il premio Nobel nel 1985. Senza entrare nel dettaglio, che esula dall’obiettivo di questo contributo, il teorema stipula che il valore di una azienda, in teoria senza arbitraggi o tasse, è indipendente dalla struttura finanziaria.
Questo teorema definisce anche la relazione teorica tra rischio rendimento tra capitale di rischio e di debito, in virtù della subordinazione del primo al secondo. A parità di valore (e rischio) dell’azienda, poiché il costo del capitale dell’equity (o rendimento atteso) è una funzione della leva finanziaria dell’impresa, un maggiore indebitamento dovrebbe implicare anche un più alto costo del capitale proprio, anche a causa del maggiore rischio (come quello di insolvenza) a carico degli azionisti dell’impresa.
Su questo meccanismo, nella complessità della sua gestione, si innesta la valenza dell’uso del leverage, amplificata dal fatto che gli interessi sul debito siano nella realtà deducibili, il che (sotto condizioni di solvibilità) crea valore addizionale per l’azionista.
Gli operatori di private equity devono lavorare con grande perizia sull’efficienza della struttura finanziaria per massimizzare i benefici ottenibili dalle migliorie di leva operativa, lasciandosi il margine di sicurezza (quantomeno pianificato) per evitare di incappare in situazioni di mancanza di cassa e quindi di default sulle obbligazioni dell’indebitamento.
Come di consueto, un breve esempio può aiutare a dimostrare come la leva finanziaria abbia un impatto positivo per l’azionista.
Nell’ipotesi base, l’acquisizione della società A (che per semplicità non ha debiti né cassa) da parte del fondo Y avviene solo con equity, ovvero senza indebitamento. Il prezzo pagato per l’acquisizione è di 100$. Dopo cinque anni il fondo Y rivende la società A per 200$ e realizza un capital gain di 100$ e un rendimento annualizzato sul proprio capitale (equity) pari al 14,87% = [(200/100)^(1/5)]-1.
Nell’ipotesi alternativa che contempla l’utilizzo di leverage, la stessa acquisizione è fatta con una struttura finanziaria che prevede un rapporto debt / equity al 100%. Si assume che il costo del debito sia del 5% annuo (per semplicità su tutta la vita dell’operazione, senza contare la deducibilità fiscale che andrebbe a ridurne il peso e quindi ad incrementarne la redditività) ovvero di 2,5$ annui. In questo caso, con un capitale di rischio di 50$ si ottiene un capital gain di 87,5$ = 100-(5×2,5) e un rendimento annualizzato sul proprio capitale (equity) pari al 22,42% = [(87,5+50)/50]^(1/5)-1, ampiamente superiore al rendimento dell’ipotesi base.
Da una fondamentale regola di corporate finance deriva la morale della storia. Finché la redditività dell’azienda è superiore al costo del debito, il rendimento dell’equity cresce al crescere dell’indebitamento. Il limite è nella capacità dell’azienda, dell’asset, di produrre flussi di cassa per ripagare il debito ed evitare situazioni di default, nelle quali il capitale di rischio si ritrova subordinato nella distribuzione dei proventi della liquidazione rispetto al debito.
In altre parole, rielaborando il modo di spiegare la visione sul leverage di un importante investitore di private equity: la leva finanziaria è come un buon vino, esalta il pasto – se non si esagera.