Mentre una drammatica guerra continua a essere combattuta, accompagnata da forte tensione sul mercato dell’energia, inflazione fuori controllo nell’ombra di una incombente recessione globale, riconosco che questo contributo parta da uno spunto frivolo, ma che è esso stesso segno dei tempi.
“La qualità non è mai cara” recita uno slogan lanciato di recente sui social media da un famoso ristoratore che ha grande seguito anche come influencer. Il post in questione ha avuto ampia eco nelle notizie online, anche al di fuori delle piattaforme social.
La qualità ha un prezzo?
Di questa eco anche io ho avvertito la vibrazione, sotto forma di uno scontrino dall’ammontare record. Il suono dell’emissione di questo salato scontrino, dolce per il ristoratore e apparentemente divertente per i clienti soddisfatti, arriva da Dubai, e questo non sorprende. Gli Emirati ormai rappresentano (ancor più oggi, viste le recenti quotazioni dei prodotti petroliferi, a maggior ragione se valutate in euro) l’epicentro di sfarzo e ostentazione di ricchezza.
Centosessantamila euro per una cena per quattordici commensali a base di bistecche, qualcuna velata d’oro, e tutte accompagnate da nettare costosissimo, una serie di bottiglie di vino Bordeaux di elevatissimo pregio e altri alcolici, che ex post sono risultati coprire oltre il 90% del conto totale.
Mi diceva un grande esperto di vini e sommelier che la gran parte dei consumatori, inclusi i clienti dei ristoranti di lusso, oltre una certa soglia qualitativa non distinguono la qualità e la sofisticazione dei vini. E, aggiungo io per estensione, questa osservazione deve valere anche per il cibo, oltre una certa soglia qualitativa. L’apprezzamento della qualità estrema è materia per specialisti.
Sicuramente la qualità ha un prezzo. Ma ciò che si paga è forse la visibilità che un’esperienza esclusiva, un’etichetta e il conseguente clamore sui social media, al di là del reale godimento della qualità del bene acquistato.
Almeno questo appare, sia nello sfoggio fatto da clienti facoltosi con la pubblicazione di uno scontrino per un conto “non ordinario” di un ristorante, ma anche nel riverbero che il patron del ristorante ne provoca sui propri ampissimi canali social.
Tuttavia, senza i grandi vini Bordeaux, lo stesso conto sarebbe stato “importante” ma, probabilmente, non avrebbe potuto suscitare lo stesso clamore mediatico, e l’implicito messaggio di qualità elevatissima, che il famoso ristoratore ha sapientemente veicolato sul suo cibo, a giustificazione dei suoi prezzi.
Il prezzo dei mercati privati
A questo punto mi aspetto che chi mi legge si chieda che cosa c’entra tutto questo con i mercati privati.
Non entrerò evidentemente nel tema se questo cibo estremamente costoso valga il prezzo pagato. E neppure se possa valere la pena di investire in una catena di ristoranti di lusso. Invece vorrei fare una riflessione sulla capacità del cliente, investitore nel mercato privato, di apprezzare e prezzare la qualità. E del ruolo delle aspettative e del brand, l’aurea, dei mercati privati.
Tra tutte le asset class, gli investimenti nei mercati privati sono quelle che richiedono il maggior grado di fiducia, di trust nel gestore.
Una serie di ragioni sono alla base di questa circostanza. In primis l’illiquidità strutturale, che non consente di cambiare idea velocemente e senza particolari oneri. Quindi, il lungo orizzonte temporale che passa tra l’attesa e la realizzazione del rendimento. In ultimo, il fatto che l’investimento sia fatto a fronte di un portafoglio di investimento che sarà composto solo nel tempo.
Per i fondi di nuova emissione, l’investimento di mercato privato avviene a fronte di un “blind pool”, ovvero di un portafoglio di investimento “vuoto”, e quindi a valere sul track record del gestore, sulla sua “reputazione”, sul suo brand e sulla percezione rispetto al fatto che abbia predisposto gli ingredienti (team, scouting degli investimenti, relazioni con controparti del mercato dei capitali, etc.) per raggiungere il risultato di eccellenza prospettato.
Ma anche per i portafogli formati che possono rendersi disponibili sul mercato secondario, l’investimento di mercato privato comporta una notevole dose di fiducia. Rimane comunque una certa illiquidità e ancora un orizzonte di investimento di medio periodo. E, tipicamente, gli investimenti sottostanti non sono completamente trasparenti per l’acquirente.
Uno dei partner di uno dei principali gestori di private equity a livello mondiale, giusto la settimana scorsa, mi diceva di trovare sorprendente che l’innovazione non abbia ancora portato le valutazioni dei Nav (i net asset value) dei fondi, su un “level playing field”, ovvero a parità di condizioni. Ogni gestore adotta ancora ampia discrezionalità per queste decisioni che hanno tuttavia grande influenza nei report della performance, quando essa è ancora attesa e non realizzata. Si parla, per i mercati privati a maggior ragione, di paper gain, rendimenti sulla carta, visto che i numeri dei report non possono essere monetizzati a vista, da parte dell’investitore, come invece è possibile per i mercati quotati.
È indubbio che i mercati privati traggano grande parte della loro attrattiva dall’attesa di rendimenti di livello superiore. Ma, in questo, i mercati privati sono esattamente come un ristorante con un’aurea di grande qualità e brand tale da rendere l’accesso esclusivo.
Nella fila all’ingresso, c’è grande trepidazione, consapevolezza del costo importante e attesa per la qualità che però potrà essere realmente apprezzata solo alla fine del servizio, spesso con una sofisticazione “di palato” non ordinaria anche da parte dei clienti. La comunicazione dell’oste è sempre interessata.