La qualificazione di detti proventi sotto il profilo fiscale ha spesso dato luogo a numerosi dubbi interpretativi, in considerazione della duplice veste (di dipendente o amministratore e, al contempo, di azionista) rivestita dal relativo titolare, con conseguente interrogativo circa la riconducibilità degli stessi alla categoria dei redditi da lavoro dipendente, assimilato o autonomo da un lato – con aliquota progressiva fino al 43% – o, invece, a quella di redditi di capitale dall’altra, in quanto «utili derivanti dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di società ed enti» ai sensi dell’articolo 44, comma 1, lettera e), del Dpr del 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir) – con imposta sostitutiva al 26%.
A tale proposito, infatti, il principio di onnicomprensività di cui all’articolo 51 del Tuir prevede l’attrazione di tutti i redditi percepiti dal dipendente sotto la categoria del reddito da lavoro dipendente, indipendentemente dalla natura dei redditi medesimi e anche se percepiti sotto forma di erogazioni liberali relative al rapporto di lavoro (lo stesso criterio si applica per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, compresi – ai sensi dell’articolo 50, comma 1, lett. c-bis), del Tuir – quelli percepiti «in relazione agli uffici di amministratore», a condizione che gli uffici o le collaborazioni « non rientrino nell’oggetto dell’arte o professione di cui all’articolo 53, comma 1, concernente redditi di lavoro autonomo»).
Già con la circolare n. 25/E del 16 ottobre 2017, l’Agenzia era intervenuta a dettare una serie di chiarimenti sul trattamento fiscale dei proventi in commento, contestualmente all’introduzione dell’articolo 60, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (di seguito, il D.Lgs. 50/2017) il quale detta una presunzione ope legis di qualificazione come redditi di capitale dei carried interest che presentano le condizioni richieste dalla stessa norma.
Con gli ulteriori documenti di prassi in commento, l’Amministrazione finanziaria si è conseguentemente soffermata sul perimetro applicativo della presunzione del citato articolo 60 e sulle circostanze necessarie affinché, pur in assenza dei presupposti richiesti dal D.Lgs. 50/2017, sia possibile comunque attribuire alle somme in argomento (carried interest) natura finanziaria.
La disciplina fiscale dei carried interest alla luce degli ultimi interventi dell’Agenzia
Dal punto di vista fiscale il profilo qualificatorio dei carried interest continua a presentare, nella pratica, numerosi margini di incertezza, sebbene il tema si ponga, a oggi, soltanto con riferimento a quelle fattispecie che non siano formalmente compliant rispetto alla presunzione di cui all’articolo 60 del D.Lgs. 50/2017.
Sulla base dell’attuale quadro normativo, infatti, la presunzione di cui al citato articolo 60, che consente di qualificare i carried interest come redditi di natura finanziaria, opera in presenza delle seguenti condizioni:
a) soglia di investimento dell’1%: l’investimento minimo si riferisce a quello effettuato da tutti i manager e i dipendenti titolari di proventi aventi diritti patrimoniali rafforzati, tenendo conto anche del valore delle azioni e degli strumenti finanziari assegnati senza diritti patrimoniali rafforzati. Al riguardo, le risposte a interpello n. 654, 696 e 707 del 2021 hanno chiarito che l’ammontare sottoscritto in azioni, quote o altri strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati rileva, ai fini del computo del limite dell’1% dell’investimento complessivo, solo per coloro che siano titolari di diritti patrimoniali rafforzati, e non per non anche per tutti coloro che, seppur aventi il citato status lavorativo, siano sottoscrittori di sole azioni ordinarie;
b) subordinazione del rimborso: la maturazione del reddito è subordinata al preventivo rimborso agli altri azionisti del capitale investito e all’attribuzione di un rendimento minimo (hurdle rate) stabilito dal regolamento del fondo (o ente o società) o dalla legge;
c) holding period: un periodo di detenzione non inferiore a cinque anni o, se precedente al decorso di tale periodo quinquennale, fino alla data di cambio di controllo o di sostituzione del soggetto incaricato della gestione.
In proposito, le relative risposte a interpello hanno precisato che in mancanza dei requisiti di cui ai punti precedenti, il provento avente diritti patrimoniali rafforzati non è automaticamente incluso nei redditi da lavoro, ma la relativa qualificazione deve essere valutata case-by-case; principio, a ben vedere, espresso anche dalla circolare.
Più in particolare, nell’analisi del profilo reddituale, l’Agenzia ha mostrato di attribuire rilevanza alle seguenti circostanze, le quali sarebbero idonee a qualificare i suddetti proventi come redditi di natura finanziaria anche in assenza di una o più delle summenzionate condizioni:
- l’adeguatezza dell’investimento, anche in relazione all’ammontare e alla relativa esposizione al rischio, al fine di garantire l’allineamento degli interessi tra investitori e management;
- la presenza di un’adeguata remunerazione per l’attività lavorativa svolta da parte del manager, in quanto una remunerazione molto al di sotto della media di mercato potrebbe portare a considerare il provento quale componente aggiuntiva della remunerazione ordinaria;
- la possibilità di mantenere la titolarità degli strumenti finanziari anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro, che escluderebbe uno stretto legame con l’attività lavorativa. Al riguardo, la stessa presenza di clausole di good o bad leavership, volte normalmente a condizionare il riconoscimento dell’extra-rendimento all’esistenza di un rapporto lavorativo, non escluderebbe in radice la qualificazione dei carried interest come redditi di capitale o diversi, laddove le stesse clausole siano mitigate da altre circostanze che dimostrino l’esposizione al rischio dell’investimento;
- il possesso di strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati da parte di investitori diversi dai manager o dipendenti.
Conclusioni
La disciplina fiscale relativa agli strumenti di coinvolgimento del management negli incrementi di valore delle società risulta sempre di particolare attualità e di estremo interesse, essendo ormai frequente la pattuizione di clausole di questo tipo, con un elevato grado di sofisticazione.
A questo proposito, le risposte a interpello in commento costituiscono delle importanti linee guida nella stessa determinazione degli accordi contrattuali tra manager/dipendenti e datori di lavoro, in considerazione del significativo impatto fiscale di qualsiasi riqualificazione (e cioè del carico fiscale che deriverebbe dalla riqualificazione del reddito percepito come reddito da lavoro, piuttosto che come reddito finanziario).
Come già anticipato, si ricorda infatti che, rispetto all’imposizione sostitutiva del 26% applicabile ai redditi di capitale o diversi, l’attrazione nell’ambito dei redditi di lavoro dipendente o assimilato del provento comporterebbe l’assoggettamento dello stesso alle aliquote progressive Irpef (dal 23 al 43%), a cui, peraltro, vanno aggiunte le addizionali regionali e comunali, con enorme aggravio, quindi, per il manager.