Il rischio di mercato è tornato prepotentemente d’attualità dopo essere stato a lungo sopito dalle politiche accomodanti delle banche centrali globali. Per questo continua ad avere senso riflettere sulle possibilità di gestione dei portafogli e dei fondi di investimento nei mercati privati in questo nuovo scenario economico. Questo anche al fine di gestire adeguatamente le aspettative per una asset class spesso semplicisticamente caratterizzata solo da prospettive di superiore redditività.
L’illiquidità come caratteristica
Senza l’elemento della liquidabilità, le possibilità di gestione dell’asset allocation del portafoglio di investimento nei mercati privati sono limitate e non rapide. Tuttavia, la narrativa spesso utilizzata dall’industria spiega come la rigidità strutturale, l’illiquidità degli investimenti nei mercati privati e la “lentezza” della loro valutazione, possano rappresentare un elemento che controbilancia l’emotività degli investitori causata dalla volatilità del mercato, mantenendo la barra a dritta verso il lungo termine.
Un articolo di qualche tempo fa, di un gestore di hedge fund molto noto, definiva questa condizione come una caratteristica e non un difetto e tuttavia ne evidenziava la razionale conseguenza che a essa potesse associarsi, in maniera controintuitiva, un premio per il rischio negativo rispetto ai mercati liquidi.
Data la fonte, l’argomento ha delle solide basi e, semplificando, recita come segue: tralasciando informazioni sulla volatilità inter-periodale, l’investitore si concentra sul rendimento atteso di lungo termine senza necessariamente attendersi un premio di illiquidità che, ricordo e sottolineo, non è l’obiettivo dichiarato di gestione di tali prodotti, che hanno invece uno esplicito in termini di Irr minimo.
Come gestire la distonia della percezione
Il problema da gestire è di distonia nella narrativa sui rendimenti attesi dei portafogli di investimento nei mercati privati.
I fondi di mercato privato sono spiegati e collocati con una narrativa “vuoto per pieno” sia che siano fully paid-in che a chiamata, che per quanto riguarda i rendimenti fa riferimento all’Irr. L’irr rappresenta la prospettiva del “vuoto”, ovvero del massimo rendimento teorico (nell’ipotesi tecnicamente complessa di reinvestimento continuo, che è possibile solo per asset liquidi).
La complessità della messa a terra della narrativa è che il “vuoto”, ovvero il commitment, non rende, non è “pieno”, ovvero investito, tutto e per tutto il tempo. Il rendimento del “pieno” è invece il rendimento medio del capitale effettivamente investito per il tempo reale di investimento. Questo è il tasso di rendimento annualizzato percepito effettivamente dall’investitore.
In primo luogo, la percezione distonica, spiegando le cose in modo semplice, è che un Irr al 20% del “vuoto” non si traduce in una progressione annuale tipo 100-120-140-160-180 etc del valore del portafoglio “pieno”. Il 20% è il rendimento solo della parte di capitale investito per il tempo in cui è investito, per cui la progressione riflette un tasso di crescita più smussato, che, solo in termini di Irr, appare produrre un premio di illiquidità in modo sistematico.
In secondo luogo, la distonia può essere aumentata dalla conseguente potenziale impressione che il premio di illiquidità sull’Irr implichi invece sistematica out-performance (o isolamento) del rendimento del “pieno” rispetto ai mercati quotati.
Nonostante i rendimenti siano calcolati a intervalli di tempo più dilatati rispetto ai mercati quotati, questo ulteriore smussamento non esenta il valore del portafoglio di investimento nei mercati privati dall’impatto del rischio di mercato.
In altri termini, se da un lato ci sono attese di rendimenti in termini di Irr, dall’altro le dinamiche di fair valuation incorporate, anche se con il necessario ritardo, nei Net asset value (Nav) dei fondi possono portare i rendimenti medi del capitale effettivamente investito in terreno fortemente negativo e possibilmente evidenziare forte correlazione e under-performance rispetto ai mercati quotati.
Per quanto posso testimoniare, la mia esperienza di mercato e anche di relazione con gli investitori mi suggerisce di anticipare che “questa volta è diverso” ma solo nel senso che questo contesto economico negativo potrebbe avere un impatto più duraturo rispetto a tutte le crisi di mercato post Grande crisi finanziaria del 2008 che hanno avuto dinamiche molto veloci e forse, invece e purtroppo, somigliare più a quest’ultima.
Le conseguenze e le possibilità
La conseguenza immediata è che nelle prossime valutazioni i Nav potrebbero mostrare un chiaro co-movimento in territorio negativo con i mercati quotati in termini di drawdown. E se non lo facessero, invito l’investitore con un portafoglio di investimenti nei mercati privati dal valore “stabile” a non presumere che quelle valutazioni rappresentino l’equivalente di disponibilità di cassa a vista, come ragionevolmente potrebbe attendersi per gli investimenti quotati. Con una regola del pollice, il prezzo di secondario di asset illiquidi (escludendo quelli di nicchia) “subisce l’attrazione” dei drawdown del mercato quotato.
In altri termini, la liquidità rende manifesta la volatilità dei prezzi.
Accettare la nozione di volatilità e il co-movimento dei mercati, esplicitandone l’impatto almeno in termini di comprensione intellettuale, può offrire significativi vantaggi competitivi e di strategia di prodotto e investimento.
La Grande crisi finanziaria è stata la culla dei grandi rendimenti del successivo decennio e più. È evidente a tutti quanto pandemia e l’invasione bellica russa abbiano scombinato le carte delle banche centrali. Non esiste una ricetta invariabile, perché anche questa volta è diverso. Tuttavia, si possono creare degli scenari di posizionamento strategico, tanto più solidi quanto più si considerano queste macro-interazioni tra asset class, che sono l’elemento che anche questa volta probabilmente non cambierà.
Ad esempio, la situazione di mercato attuale determina una sostanziale differenza di profilo di rischio-rendimento tra i portafogli dei fondi di mercato privato attualmente investiti e nuovi fondi.
Da un lato, i fondi correntemente investiti sono a rischio di “doppio re-pricing” sia per l’incremento dei tassi di interesse che rende più costosa la leva finanziaria sia per il possibile impatto sulla domanda derivante dalla paventata recessione. Perché questi fondi sono venditori in un mercato potenzialmente in discesa. Per questi fondi e portafogli, si tratta quindi di considerare le migliori strategie di copertura del rischio di mercato.
Dall’altro, i commitment in nuovi fondi risultano potenzialmente molto attraenti perché dovrebbero per converso trovarsi in una posizione di compratori a prezzi più competitivi, nonostante il maggior costo o la possibile minor disponibilità di debito.
In sintesi, il successo arriderà a chi riuscirà a gestire al meglio la transizione del rischio dalle posizioni attuali a quelle future, nei mercati privati come in quelli pubblici. La sfida nei mercati è sempre il trasferimento della ricchezza nel tempo.