Le sanzioni economiche resesi necessarie per rispondere senza imbracciare le armi ai deplorevoli accadimenti bellici sono un tassello di secondo livello che si è andato a inserire in un contesto economico inflazionistico ereditato dalla pandemia.
L’inflazione da domanda (o da “colli di bottiglia” dell’offerta) ereditata dalla pandemia è amplificata dalle tensioni sui mercati energetici e delle commodity alimentari causate dalla guerra legata alla crisi ucraina. Quelle che già non apparivano evidenze di inflazione solamente transitoria si stanno trasformando in dinamiche dei prezzi ormai quasi dimenticate nei paesi economicamente più sviluppati. Le banche centrali intimorite hanno segnalato – in modo a mio parere miope (la stagflazione è peggio dell’inflazione) – l’intenzione di accelerare nell’eliminazione delle logiche espansive delle fasi economiche precedenti.
L’impatto dell’inflazione
Se da un lato gli investitori in commodity stanno godendo di guadagni importanti (anche se punteggiati di grande volatilità), i mercati azionari e obbligazionari sono esposti all’incertezza del periodo. Le duration lunghe soffrono l’incertezza, e questo vale ovviamente per le obbligazioni ma anche per le azioni. In gergo, le azioni a duration lunga sono quelle i cui flussi di cassa sono più lontani nel tempo, rispetto alle quali maggiore è la percezione dell’incertezza. Le azioni a più lunga duration sono titoli growth, in contrapposizione ai titoli value, che già dalla metà dello scorso anno, dopo un lunghissimo periodo di underperformance, avevano sovvertito la situazione.
Nel 2022, il Nasdaq Composite ha perso circa il 20% in termini di capitalizzazione. In termini di valore, più di 5mila miliardi di dollari sono stati bruciati, con oltre il 40% dei titoli ad aver perso il 50% rispetto ai massimi precedentemente raggiunti. Le principali banche d’affari stimano che politiche ulteriormente restrittive da parte delle banche centrali potrebbero causare un ulteriore equivalente movimento al ribasso.
L’entusiasmo dei mercati privati
In questo contesto, sembra invece continuare il momentum positivo dei mercati privati, con un evidente entusiasmo nei confronti dell’asset class sull’onda dei risultati ottenuti.
I fondi raccolti continuano a battere record dimensionali, i general partner ampliano la gamma lanciando nuovi prodotti o acquisendo gestori di nicchia che apportano competenze specialistiche complementari. L’appetito degli investitori sembra immutato, su tutto lo spettro dell’offerta privata, dal venture capital al private equity al debito.
Le stime in merito all’allocazione nei mercati privati continuano a mostrare attese di crescita sostenuta della domanda da parte degli investitori istituzionali e di ancora maggiore incremento di quella del mercato del wealth management.
Continua a essere attraente e forte la narrativa, che tipicamente accompagna il marketing dell’investimento in questi mercati, che combina attese di maggiore redditività e di decorrelazione.
Guerra e decorrelazione
Le dinamiche di decorrelazione dei mercati privati non possono tuttavia sottrarsi all’impatto dei venti di questa guerra e del contesto inflazionistico che la caratterizza.
La vincitrice del Premio Pulitzer Gwendolyn Brooks fa notare che “la verità non è sempre appetibile, c’è sempre preferenza per i dolcetti”.
Se da un lato è ampiamente dimostrabile che gli investimenti nei mercati privati hanno a scadenza rendimenti assoluti e in questo senso decorrelati dall’andamento dei mercati quotati, proprio per le caratteristiche di gestione, dall’altro, l’orizzonte di lungo periodo che li caratterizza, in aggiunta all’utilizzo della leva, non li protegge dalle variazioni del livello delle valutazioni di mercato.
I fondi che negli ultimi anni avevano costruito aggressivamente strategie ibride incentrate sul venture capital investendo in titoli pre-Ipo, hanno cominciato a smontare velocemente i portafogli che li avevano premiati sostenendo perdite (rispetto ai valori di chiusura dei precedenti Nav) anche piuttosto rilevanti.
Non c’è quindi decorrelazione in senso assoluto per le valutazioni dei mercati privati.
Per quanto i Net asset value possano essere in ritardo, o possano essere calcolati considerando il lungo periodo (le regole di valutazione ammissibili per i fondi privati sono molto ampie – seguendo i dettami dell’Ipev, International private equity and venture capital valuation guidelines) e conservare quello che in gergo viene definito smoothing, smussamento delle valutazioni, a fronte di eventi di liquidità anche i mercati privati subiscono appieno l’impatto della volatilità delle valutazioni di mercato.
Questo non significa che non sia sensato continuare a guardare ai mercati privati e a iniziare o continuare a investire in essi. Per le nuove operazioni una crisi, un ribasso del mercato, può rappresentare un’occasione per comprare un’azienda o asset considerato valido a lungo termine a prezzi più convenienti.
Significa invece, letteralmente, che i portafogli attualmente investiti nei mercati privati, e quindi gli ultimi Nav riferiti a dicembre 2021 (o in qualche caso a settembre 2021), visti con la lente di metà marzo 2022, potrebbero mostrare riduzioni di valore. Peraltro, in qualche caso, le riduzioni di valore potrebbero essere significative e in qualche altro meno evidenti, a seconda non solo del portafoglio sottostante (più o meno esposto a aziende operanti in settori value, e per questo difensivi, o meno) ma anche delle decisioni di valutazione del gestore. Indipendentemente dalle scelte di valutazione, per le società e gli asset dei portafogli in essere, la crisi è un momento di tensione sia sotto il profilo economico, perché foriera di possibili riduzioni di domanda e quindi di Ebitda, che quello finanziario, per un eventuale inasprimento delle condizioni di credito.
Servirà per questo adeguata freddezza da parte dei gestori e degli investitori. Gli scenari economici non sempre portano dolcetti, per cui, anche per i mercati privati, è necessario predisporre una dieta ben bilanciata per gestire i dissapori.