È capace di interpretare la necessità di cambiamento, l’inclusività. È un linguaggio universale, l’unico, al pari di arte e musica: è la moda, per sua natura un sistema aperto. Quella italiana è stata la prima, tramite la Camera della Moda, a pubblicare un decalogo sull’inclusività e la sostenibilità. In Italia durante l’anno del covid ha sofferto come gli altri settori, perdendo il 26% del fatturato, ma ha resistito. Ma «il sistema italiano della moda è il più sostenibile al mondo, seguito da quello giapponese». Lo afferma il presidente della Camera della Moda Italiana,
Carlo Capasa, nel corso del
Luxury Summit 2021, organizzato dal Sol24Ore.
In Italia, l’industria della moda, già dal 2015, ha puntato su «sostenibilità e digitalizzazione». Inoltre, le fashion week italiane sono state le più seguite al mondo durante la pandemia. «Il 47% del traffico generato dalle settimane della moda è stato generato da Milano. Il restante 53% da Parigi, New York e Londra». Camera della Moda Italiana, realtà che da sempre del fare sistema ha fatto la sua missione e il suo successo, ha creato una piattaforma capace di accogliere 50 milioni di player con le sfilate della sola ultima settimana di febbraio.
Tuttavia, lamenta Capasa, è un’industria che le nostre istituzioni troppo spesso hanno intimamente considerato di poco rilievo, se non frivola. A livello politico il fiore all’occhiello del paese non viene preso sul serio: «Abbiamo la fortuna di essere considerati nel mondo la patria della moda. Siamo leader della produzione e della creatività: la Francia per dire produce in Italia. In questi anni però le istituzioni ci hanno trattato come un’industria non necessaria. In realtà dobbiamo esserne fieri e avere un disegno industriale di medio e lungo termine, essere consapevoli che la moda è basata sulla ricerca e lo sviluppo. Il che solo in minima parte è riconosciuto a livello fiscale. Abbiamo presentato un Pnrr della moda a sei anni per cercare di renderla sempre più competitiva, pensando che questo settore di fonda su ricerca e sviluppo. È vitale creare un patto tra industria e scuole, industria e distretti».
A tal proposito Capasa ricorda la difficoltà di trovare un modellista 3D per la filiera. Filiera che è nel caso della moda italiana è un alto di gamma che beneficia della prossimità territoriale: non accade mai che si fermi perché mancano i componenti, come accade per le automobili o per i computer, per esempio.
Come sottolinea il presidente di Confindustria Moda,
Cirillo Coffen Marcolin, «nel nostro sistema moda non esistono solo le grandi imprese che fanno da traino».
Micaela le Divelec Lemmi, ceo di Slavatore Ferragamo, aggiunge che le grandi imprese possono mettere a disposizione il loro know how per il sistema generale della moda italiana, riducendo l’impatto della crisi sulle attività della filiera, «aumentando la produttività delle aziende di dimensione medio piccola. I big sono tanti, ma le pmi sono la grande maggioranza».
Il know how delle grandi imprese del nostro sistema moda include una cultura tecnologica avanzata, come ha messo in mostra per esempio Dolce & Gabbana, lavorando nel periodo più cupo della pandemia con rendering e sfilate video pensate su misura per il cliente, sposando al contempo una profondissima cultura dell’artigianalità e della manualità. Digitalizzazione e sostenibilità sono paradigmi fortemente impattanti. La tecnologia può diventare determinante per scelte di sostenibilità e viceversa. Non si deve dimenticare, dice Andrea Ruzzi, managing director, European Fashion Luxury Lead, Accenture, che «la mancanza di approccio quantitativo va a detrimento dei brand, della loro autenticità. I processi di certificazione non sono ancora chiari e devono diventarlo, non è più accettabile che non lo siano».
Ma la sostenibilità è una espressione che va riempita di contenuti, dice
Diego Della Valle, amministratore delegato e presidente di Tod’s Group. «Noi abbiamo una strategia del 50 e 50. Ovvero, per il 50% siamo quello che eravamo, per l’altro 50% quello che siamo e saremo. Non bisogna rinnegare nulla. Il futuro è dei marchi che hanno qualcosa da raccontare e valori da trasmettere».
D’accordo con lui è l’avvocato Luca Arnaboldi, senior partner Carnelutti, per cui la «sostenibilità è un movimento filosofico, sicuramente culturale, che non può essere solo una confezione. I legislatori del mondo non hanno ancora ritenuto di intervenire in maniera codificativa. Discorso diverso per l’Ue, che ha già emesso due direttive in materia. Una delle grandi fake news di questo tempo è che il settore tessile sia il secondo settore industriale più inquinante al mondo. Nulla di più falso. Come diceva Andy Warhol, la più grande opera d’arte è il nostro pianeta, e noi dobbiamo salvarlo». Salvezza che arriverà avvolta in drappi e sete? Può essere.
È capace di interpretare la necessità di cambiamento, l’inclusività. È un linguaggio universale, l’unico, al pari di arte e musica: è la moda, per sua natura un sistema aperto. Quella italiana è stata la prima, tramite la Camera della Moda, a pubblicare un decalogo sull’inclusività e la sostenibilit…