- l’opacità, cioè la capacità di mantenere una più o meno stringente confidenzialità circa l’identità dei loro esponenti (azionisti, beneficiari e amministratori) nonché degli investimenti effettuati da tali veicoli;
- la flessibilità dell’ordinamento giuridico che li governa, che permette di articolare il funzionamento di questi veicoli in modo molto vario, consentendo di adattarli efficacemente alle situazioni specifiche per cui sono costituiti, nonché alla stabilità della legge che li governa, tipicamente molto stabile.
È chiaro, perciò, come la finanza offshore sia vista in modo ambivalente dai legislatori della maggior parte dei paesi, che, se da un lato non vogliono impedire la libertà dei propri cittadini di organizzare i propri investimenti nel modo per loro più efficiente, dall’altro vedono con un certo sospetto strutture di investimento che, per loro stessa natura, schermano i loro beneficiari finali, rendendoli in molti casi anonimi.
Va chiarito che, in un panorama del genere, è sempre abbastanza agevole, quanto meno in astratto e salvo casi oggettivamente molto particolari, tirare una linea di demarcazione fra ricorso lecito alla finanza offshore e uso illecito della medesima: l’uso di un feeder fund delle isole Cayman nel contesto dell’articolazione di un fondo di private equity può ad esempio essere opportuno per permettere l’investimento nel fondo anche da parte di soggetti che, altrimenti, non potrebbero farlo per ragioni fiscali, regolamentari o di altro tipo, ma pur sempre legittime. Tutt’altra cosa è, invece, l’uso di una serie di veicoli offshore per interrompere la catena della beneficial ownership in un contesto di riciclaggio di proventi derivanti da attività criminali.
Ci si deve dunque chiedere se il ricorso (chiaramente per finalità legittime) a queste strutture possa, se reso pubblico, provocare danni reputazionali per gli investitori e per gli operatori coinvolti. Ciò, anche perché il trend internazionale verso una sempre maggiore trasparenza, nel quale strutture opache trovano sempre meno cittadinanza, non ha portato a una maggiore insofferenza per la finanza offshore, ma piuttosto a un generale spostamento degli operatori legittimi verso strutture che offrono minore opacità e maggiore disclosure nei confronti delle autorità fiscali e regolamentari dei vari paesi, mantenendo al contempo gli altri tradizionali vantaggi di questi strumenti.
Se, dunque, distinguere fra uso legittimo e uso illegittimo di una struttura basata su veicoli offshore non è poi così arduo e se la finanza offshore non è vista significativamente peggio rispetto al passato, è poi così vero che il ricorso alla medesima possa comportare rischi reputazionali?
La risposta a questa domanda, purtroppo, è affermativa e il caso dei recenti scandali (scandalo Liechtenstein, Panama Papers e Paradise Papers, per citare i più importanti degli ultimi anni) lo conferma.
Il caso del Liechtenstein è esploso nel 2008 dopo che un tecnico dei computer dipendente di una banca ha consegnato, in cambio di una significativa somma di denaro (la stampa riporta cifra di 4,2 milioni di euro) ad esponenti dei servizi di intelligence tedeschi un cd contenente informazioni bancarie (inclusi numeri di conto, intestatari e consistenze finanziarie) di una serie di clienti della banca che agivano tramite veicoli opachi di diritto del Liechtenstein (che, quanto meno all’epoca, era un vero e proprio paradiso fiscale). Le autorità tedesche (nonché quelle di altri paesi ai quali lo stesso informatore ha poi ceduto le medesime informazioni) hanno utilizzato questi dati nel contesto di azioni volte al recupero di evasione fiscale.
Nel caso dei Panama Papers, una fonte mantenuta anonima ha consegnato nel 2015 documentazione relativa a 11,5 milioni di dossier intestati ai clienti di una società panamense di consulenza legale specializzata in costituzione e amministrazione di veicoli offshore (la Mossack-Fonseca) a un giornale tedesco che ha condiviso le informazioni con un network internazionale di giornalisti investigativi (International consortium of investigative journalists, Icij). Il consorzio ha analizzato e, successivamente, pubblicato i dati, rendendo di fatto pubblici i nomi degli investitori e degli altri esponenti coinvolti. Il caso dei Paradise Papers è analogo.
L’elemento che accomuna questi scandali è l’aver portato alla luce e reso pubbliche, suscitando un’amplissima eco mediatica, una serie di situazioni rivelatesi illegittime (evasione fiscale) o quanto meno irregolari (ad esempio, l’aver svelato il patrimonio occulto di persone politicamente esposte), al contempo non distinguendo quelle che, invece, erano pienamente legittime.
Il caso dei Panama Papers, da questo punto di vista, è emblematico: quando è esploso lo scandalo e persone politicamente o mediaticamente esposte sono state colte con le mani nel sacco, il solo fatto di risultare intestatario di uno dei dossier resi pubblici ha comportato un danno reputazionale più o meno significativo anche per quei soggetti che avevano fatto ricorso a un veicolo offshore per ragioni completamente legittime. Solo per fare un esempio, non era infrequente, negli anni immediatamente successivi allo scandalo dei Panama Papers, che in sede di due diligence su veicoli di investimento facenti parte di fondi di private equity (che spesso, come già osservato, sono veicoli offshore), i potenziali investitori chiedessero di verificare se tali veicoli fossero elencati nei dossier resi pubblici e si interrogassero circa l’opportunità di effettuare l’investimento alla luce del relativo rischio reputazionale.
In essenza, la natura del rischio reputazionale sta nella modalità in cui il caso diventa mediatico o comunque pubblico: i dati dei clienti offshore di una banca o di un advisor vengono resi pubblici, per necessità senza distinguere fra situazioni lecite e situazioni illecite; siccome le situazioni illecite fanno notizia, a differenza di quelle lecite, ne consegue il rischio concreto che un soggetto che abbia agito in modo assolutamente legittimo si trovi la reputazione danneggiata solo per essere accomunato a situazioni che legittime non sono, ancorché ne sia completamente estraneo.
Il danno reputazionale, in questi casi, si declina in vari modi: un investitore istituzionale potrebbe risultare destinatario di indagini penali, regolamentari e fiscali che, comunque, comportano oneri e si possono protrarre per molto tempo e potrebbe trovarsi a dover gestire pressioni e richieste dei propri investitori. Un advisor potrebbe subire contraccolpi sulla propria reputazione nei confronti dei clienti che, per motivi di nuovo connessi al rischio reputazionale, potrebbero preferire rivolgersi ad altri operatori meno mediaticamente esposti.
Come gestire rischi di questo genere? Ogni situazione è specifica e richiede un approccio che non può essere generalizzato. Tuttavia, monitorare i rapporti con gli advisor e gli altri soggetti coinvolti in un investimento (ad esempio, selezionandoli tenendo in considerazione anche questi aspetti), prestare attenzione a come viene gestita la cyber-security e generalmente privilegiando interlocutori attenti ai temi reputazionali costituiscono evidentemente le fondamenta su cui costruire procedure efficaci nel contenimento di questi rischi.