Le donne scontano una differenza di salario nell’ordine del 20% rispetto alla controparte maschile. E godono anche di un’aspettativa di vita più lunga degli uomini
Carbone: “Quando si valuta un part-time, o un’aspettativa, varrebbe la pena di considerare anche le conseguenze sulla propria situazione previdenziale”
Il divario di genere nel mondo del lavoro, che si declina in una differenza retributiva tra uomini e donne nell’ordine del 20%, si riflette anche sulla posizione previdenziale delle lavoratrici. Nel nostro sistema pensionistico il valore delle pensioni deriva infatti dai contributi versati, che a loro volta dipendono dal reddito. Ciò significa che più sarà elevato lo stipendio medio nell’arco della propria carriera, maggiore sarà il “tesoretto” percepito al momento del pensionamento. Senza dimenticare il tema della longevità, con le donne che si preparano ad affrontare in media circa cinque anni e mezzo di vita senza il proprio compagno. Andrea Carbone, divulgatore, economista, formatore e ideatore di smileconomy (società indipendente di ricerca e consulenza finanziaria, assicurativa e previdenziale), svela a We Wealth quanto dovrebbero versare in una forma di previdenza integrativa per annullare il gender gap. E rimettersi in pari, almeno a livello di risorse per la pensione, con gli uomini.
Perché le donne devono tutelarsi di più
Il primo aspetto da considerare, oltre al diverso valore della pensione, è dunque quello della maggiore aspettativa di vita delle donne. “A 65 anni, ad esempio, l’attesa di vita femminile supera quella maschile di quasi tre anni e mezzo: ciò significa che le risorse per la longevità dovranno essere usate per un maggior numero di anni”, spiega Carbone. “Qualora, come probabile, le pensioni pubbliche e complementari non saranno sufficienti a soddisfare le necessità economiche, bisognerà quindi avere a disposizione un maggiore patrimonio. Ma non solo: vivere più a lungo significa anche esporsi a una maggior probabilità di avere problemi di salute e limitazioni nella propria indipendenza quotidiana, con ulteriori necessità economiche. Peraltro, visto che mediamente nella coppia la donna è più giovane di circa tre anni, gli anni della longevità che – statisticamente – andranno affrontati senza il proprio compagno sono circa cinque e mezzo”.
L’impatto del part-time sulla pensione
Altro tema è quello del part-time, tipicamente femminile in Italia, che dal canto proprio rischia invece di impattare sui contributi previdenziali. Ma dipende dalla tipologia, dal numero di ore e dal reddito. “Tra part-time orizzontali e verticali c’è un’ampia variabilità di forme contrattuali”, precisa Carbone. “Il modo più semplice per verificare l’effetto del part-time è leggere l’estratto conto contributivo, disponibile sul sito dell’Inps e contenente la nostra storia lavorativa. Se negli anni del part-time ci sono 52 settimane (o 12 mesi), non c’è rischio di avere buchi contributivi. Se, al contrario, si hanno un numero inferiore di settimane o mesi, significa che si sta creando un buco contributivo”. In quest’ultimo caso, a seconda della situazione, il part-time potrebbe impattare sul valore dell’assegno pensionistico (in riduzione) o sulla data di pensionamento (in aumento).
Quanto deve versare in più lei
Per calcolare quanto le donne debbano risparmiare per la pensione partiamo dall’assunto che nonni e genitori, grazie al sistema retributivo, possono contare su una pensione pari all’80% del reddito. Una percentuale che rappresenta oggi, per molti, l’obiettivo minimo da raggiungere sommando alla previdenza pubblica quella integrativa. Siccome però le lavoratici scontano un reddito inferiore del 20% rispetto agli uomini, questo potrebbe tradurre il divario previdenziale di genere in un diverso obiettivo: l’80% per gli uomini e il 100% per le donne (80+20%). Partendo da questo presupposto, smileconomy ha elaborato per We Wealth un indicatore sintetico di “gender gap” che definisce quanto le donne dovrebbero versare in una forma di previdenza integrativa rispetto agli uomini, considerando tre profili di età e di reddito: 25 anni (1.000 euro di reddito netto per le donne a fronte dei 1.200 euro degli uomini, per un differenziale del 20%), 30 anni (1.500 contro 1.800 euro), 40 anni (2.000 contro 2.400 euro). Quello che è emerso è che le 25enni devono versare in media più del doppio (2,6 volte) dei coetanei in previdenza integrativa, vale a dire 80 euro con un profilo di rischio basso e 63 euro con un profilo di rischio medio a fronte rispettivamente dei 31 euro e dei 25 euro degli uomini. Le 30enni invece devono versare mediamente 235 euro nel caso di un profilo di rischio basso (contro i 130 euro degli uomini) e 192 euro con rischio medio (contro i 106 euro degli uomini) per un gender gap pari a 1,8. Le 40enni, infine, dovrebbero versare a loro volta poco meno del doppio (1,7) ossia 553 euro con rischio basso e 472 euro con rischio medio a fronte rispettivamente dei 324 e dei 273 euro della controparte maschile.
Fonte: Elaborazioni smileconomy. Tutti i valori sono al netto della fiscalità e reali, al netto dell’inflazione. Ipotesi previdenza integrativa: Stime con metodo rolling ex-post delle ultime 240 osservazioni mensili, per intervalli di 120 mesi, su livello di probabilità al 50%; Linea rischio medio: 50% FTSE EMU Government Bond Index – 50% MSCI World; Linea rischio basso: 100% FTSE EMU Government Bond Index; Costi medi ISC fondi aperti – COVIP 2021, in funzione della durata; Coefficienti di trasformazione in rendita IPS55 TT0%. Ipotesi previdenza pubblica: Età inizio contribuzione: 25 anni, con continuità lavorativa; Crescita reale passata del reddito: 1,5%; Crescita PIL reale annuo: 0,3%; Scenario crescita attesa di vita: ISTAT basso (5° percentile)