La riforma fiscale in arrivo riguarderà anche la tassazione sui fondi pensione. Dopo le polemiche sollevate dal presidente di Itinerari Previdenziali, Alberto Brambilla, è tempo di fare chiarezza su quello che attualmente sappiamo sull’argomento. L’intervista di We Wealth al presidente della Commissione Finanze alla Camera, Luigi Marattin.
Negli indirizzi delle Commissioni, si prevede di cancellare la tassazione delle rendite nella fase di maturazione e di sostituire l’attuale aliquota agevolata nella fase di prestazione “secondo le aliquote Irpef ordinarie”. Da quest’espressione è nato il primo equivoco. Le aliquote Irpef progressive, che oggi vanno dal 23 al 43%, non avrebbero nulla a che fare con la tassazione dei fondi pensione che verrà. Le possibili novità, però, rimangono interessanti.
Come ha successivamente chiarito il presidente della Commissione Finanze alla Camera, Luigi Marattin (Italia Viva), l’aliquota che andrebbe a colpire le prestazioni dei fondi pensione sarebbe quella applicata alle rendite finanziarie, nel contesto post-riforma indicato nel documento. “Nelle nostre intenzioni l’aliquota applicata alle prestazioni previdenziali complementari è l’aliquota inferiore dell’Irpef, che al momento è al 23%, ma che non sappiamo quale sarà nel nuovo sistema”, ha dichiarato Marattin in un’intervista a We Wealth.
Nel concreto, dunque, la tassazione della previdenza complementare verrebbe modificata nel seguente modo: a) eliminata l’imposta al 20% sulle rendite nella fase di maturazione; b) inasprita l’aliquota sulle prestazioni che oggi (per la componente relativa alla restituzione del capitale) va dal 15% fino a scendere gradualmente al 9% a seconda del numero di anni cui si è contribuito al fondo; il nuovo prelievo difficilmente sarebbe inferiore al 23%.
Alla fine, questa possibile riforma quanto inciderebbe nel portafoglio? Su questo le opinioni di Brambilla e Marattin, continuano ad essere diverse. Il nuovo modello “favorisce la formazione di un montante più alto (perché liberato da una tassazione annuale del 20% sui rendimenti), eventualmente da bilanciare con una diversa tassazione nella fase delle prestazioni”, ha dichiarato il presidente della Commissione Finanze, “Ma non solo: aumentando la massa investita, aumentano anche le opportunità e quindi, potenzialmente, la redditività”, ha aggiunto Marattin, “sotto ipotesi ragionevoli, non è affatto detto che la riforma riduca l’ammontare netto delle prestazioni”.
Sulle pagine del Corriere, Brambilla aveva replicato con il seguente calcolo: con 5.000 euro versati annualmente in 20 anni, con un rendimento medio lordo del 3% e una nuova aliquota al 23% sulle prestazioni, il montante finale, con il modello di tassazione proposto dalle Commissioni, si restringerebbe dell’8,13%, da 115.980 euro a 106.554.
Rendimenti medi più elevati nella fase di maturazione tenderanno a favorire un po’ il sistema delle Commissioni, così come se l’aliquota effettivamente non fosse al 23%, bensì inferiore. Al contrario, un maggior numero di anni di partecipazione al fondo farà propendere ulteriormente l’ago della bilancia verso la tassazione oggi vigente. Buona parte della risposta, dunque, sta nelle ipotesi fatte in origine.
La sfida per la previdenza di domani
In Italia la previdenza integrativa non riesce a decollare, nonostante i timori che circondano un sistema pensionistico pubblico che non potrà che diventare meno generoso nei prossimi anni. Nel 2020 i fondi pensione gestivano risorse pari al 9,8% del Pil in Italia, contro una media Ocse del 63,5%. Cambiare la tassazione dei fondi nel modo indicato dalle Commissioni aiuterebbe a ridurre questo gap? I firmatari del documento ne sono convinti, adducendo almeno due motivazioni.
Da un lato, la nuova tassazione permetterebbe di allineare il sistema italiano a quello prevalente in Europa. Infatti, il sistema di tassazione previdenziale ETT vigente in Italia (contribuiti esenti, rendimenti tassati, prestazioni tassate) è fra i meno diffusi: solo Grecia, Danimarca e Svezia lo adottano in tutta l’area Ocse. Il sistema EET proposto dalle Commissioni è, invece, quello di gran lunga il più comune (vige in 18 Paesi Ocse su 37). Secondo le Commissioni, “uniformarsi al modello prevalente in Europa faciliterebbe l’armonizzazione della trattazione della previdenza complementare a livello continentale evitando i rischi di doppie tassazioni e favorendo il decollo delle forme di risparmio previdenziale integrativo europeo”.
Per i promotori della riforma fiscale, inoltre, la modifica andrebbe a semplificare l’attuale tassazione delle prestazioni dei fondi pensione, definita come “un meccanismo molto complesso”. La semplificazione, però, non comporta necessariamente vantaggi economici per il risparmiatore. “Nel documento delle Commissioni si intende, tra le altre cose, mettere ordine nella giungla fiscale attuale, in cui praticamente ogni tipologia di reddito al di fuori della progressività è tassata con un’aliquota diversa”, ha affermato Marattin. L’introduzione di una sola aliquota sarebbe sì più chiara, ma potrebbe disincentivare una più lunga l’adesione nei fondi. Infatti, il meccanismo attuale riduce progressivamente l’aliquota sulle prestazioni a partire dal quindicesimo anno di contribuzione, incoraggiando così una più lunga permanenza nei fondi e un maggior risparmio previdenziale. “Niente vieta, se lo si desidera, di mantenere un incentivo ad-hoc”, ha concesso su questo punto l’esponente di Italia Viva, per “rafforzare ulteriormente la previdenza complementare, mantenendo uno schema decrescente nel tempo quale quello attuale”.
L’incentivo alla pensione integrativa è di cruciale importanza per i prossimi anni. Oggi, infatti, il terzo pilastro è ancora poco attraente perché in Italia si pagano contributi previdenziali obbligatori fra i più elevati nell’area Ocse (33%, contro una media al 18,4%) e si riceve in pensione una quota del reddito lavorativo precedente fra le più alte al mondo (al 91,8%, dati Pensions at a Glance Ocse aggiornati al 2018). Il problema è che le percentuali di oggi non si manterranno altrettanto generose nei prossimi decenni. Per i nati negli anni Ottanta, aveva dichiarato nel dicembre 2015 l’allora presidente dell’Inps Tito Boeri, il tasso di sostituzione medio scenderà intorno al 62% e “tenendo conto degli anni di percezione, le pensioni saranno del 25% più basse rispetto a quelle di oggi”.