A livello interno le vicissitudini politico-economiche del 2021 (e l’attuazione del Pnrr nei prossimi anni) porteranno nei prossimi mesi a una riforma complessiva, e a livello internazionale stiamo assistendo a una revisione storica della tassazione delle multinazionali.
Basti pensare appunto agli eventi degli ultimi mesi.
Ad aprile la nuova amministrazione Biden lancia una proposta che a livello interno prevede un aumento dell’aliquota di imposizione federale societaria dal 21 al 28%, e a livello internazionale invoca un’intesa per una imposta minima globale sulle società. Neppure un mese dopo, a maggio, la Commissione europea si esprime nella direzione di una definizione uniforme della base imponibile societaria, preannunciando nuove misure di lotta all’elusione fiscale e in particolare alle shell company. A giugno, a Londra, il G7 finanziario raggiunge l’accordo per una aliquota globale minima di almeno il 15% sui redditi d’impresa e per una tassazione di almeno il 20% dei profitti che superano un margine del 10% nei Paesi dove vengono realizzate le vendite. Il tutto, replicato al G20 di Venezia in luglio.
È questa la chiave di volta per comprendere come oggi sia possibile la revisione di un sistema impositivo così radicato e inamovibile nel tempo. Non dimentichiamo, infatti, che le linee essenziali della tassazione delle multinazionali a livello mondiale risalgono agli studi della Società delle Nazioni degli Anni Venti del secolo scorso.
Ecco perché sono appropriate le definizioni di “accordo senza precedenti” (il Commissario Ue Paolo Gentiloni), di “passo storico” (il nostro presidente del Consiglio Mario Draghi), di “game-changing opportunity” (Financial Times, editorial board, 7 giugno 2021).
Da tempo si era ravvisata la necessità di superare le vetustà di un sistema fiscale costruito per un’economia “brick and mortar”, nel quale era facile identificare i luoghi di produzione del reddito e la residenza fiscale di un’impresa era determinata dal luogo di localizzazione degli stabilimenti produttivi, l’attività d’impresa e gli azionisti.
Ma il tutto era rimasto lettera morta, fino a quando l’inevitabile esigenza di far fronte all’emergenza pandemica ha completamente sconvolto quell’assetto.
Il “la” è arrivato dagli Stati Uniti, nell’ottica della nuova politica multilaterale avviata dall’amministrazione Biden. Per contribuire a finanziare un piano di rilancio economico da più di 2mila miliardi di dollari, il governo americano punta decisamente sull’aumento dell’imposizione societaria, ritenendola una soluzione politicamente preferibile rispetto ad altre (basti pensare alle proposte del Fondo monetario internazionale, che mirano invece all’aumento delle imposte patrimoniali o all’introduzione di “tasse di solidarietà” su soggetti particolarmente abbienti).
Tale incremento dell’imposizione societaria, laddove fosse una scelta unilaterale degli Stati Uniti, aumenterebbe ulteriormente l’interesse per le multinazionali di quel Paese a spostare la residenza in giurisdizioni a bassa fiscalità. Di qui, dunque, la seconda parte della proposta Biden – Yellen, quella che ha avuto maggior risonanza: l’ineluttabilità di un accordo internazionale volto a fissare una aliquota minima di tassazione sul reddito globale delle imprese.
E poco dopo la Commissione europea ha pubblicato un documento che descrive gli obiettivi e le caratteristiche generali delle future riforme in tema di tassazione delle imprese, e nel quale è indubbio il peso avuto dalla necessità di finanziare il Next Generation Eu.
Anche la Commissione punta alla definizione uniforme della base imponibile societaria, alla lotta all’elusione fiscale, alla trasparenza massima sulla tassazione delle multinazionali nei vari Paesi.
Ovviamente, le difficoltà non mancheranno, sia dal punto di vista tecnico (l’accordo sull’aliquota comune si riferisce a quella effettiva, che terrà conto quindi di agevolazioni, detrazioni, crediti: ciò comporterà tra l’altro un’intesa sulla definizione della base imponibile globale, sulla disciplina delle perdite, sulla definizione delle tipologie di imposte pagate nel Paese di produzione del reddito da riconoscere), sia da quello politico (basti pensare, solo per restare nell’Ue, alla regola dell’unanimità in materia fiscale …), per cui la strada da percorrere sarà ancora lunga.
Ma la via è irreversibile.