We Wealth ha intervistato Michele Geraci, ex sottosegretario di Stato nel Governo Conte I, responsabile per il Commercio Estero ed Investimenti e massimo esperto in tema di Cina
Dagli investimenti diretti esteri alle implicazioni per le imprese italiane le domande sono molte. Siamo alle porte dell’era cinese?
Principalmente l’arrivo di nuovi investimenti diretti esteri è dovuto da una parte alla mancanza di alternative valide e dall’altra a un’apertura della Cina che ha allentato certe condizioni in tema di investimenti esteri. Inoltre la Cina non solo assorbe questi capitali ma fa anche da ponte per il resto dell’Asia, soprattutto oggi alla luce dei nuovi accordi commerciali. Infine c’è una grande stabilità politica accompagnata a una crescita dell’economia sostenuta. Tuttavia i rischi ci sono. Prima di investire bisogna tenere a mente che c’è una rete di aziende di stato e la concorrenza non è paritaria.
Quali sono, secondo lei, i driver principali che hanno sostenuto e sosterranno una cosi ampia crescita economica?
La ricetta di crescita cinese poggia su pochi e chiari capisaldi. Primo di tutti la strategia della dual circulation, per cui l’economia cinese tenderà sempre più a dipendere dalla domanda interna e sempre meno da quella estera. In questo senso già tanto è stato fatto negli ultimi dieci anni, con le esportazioni il cui peso sul pil è passato dal 33% al 18%. Un altro aspetto decisivo è l’espansione commerciale con programmi come la Belt & Road e il recentissimo Rcep che guardano ai paesi di Asia e Africa, gli unici due continenti al mondo che avranno una crescita sia demografica che economica nei prossimi vent’anni. Infine c’è un discorso di efficienza operativa e tempestività, che si è in particolar modo visto con l’epidemia. La Cina è già uscita sia a livello sanitario che economico dalla crisi. In Europa gli aiuti del recovery fund arriveranno 18 mesi dopo lo scoppio del covid.
È tutto oro quel che luccica o ci sono delle criticità nascoste dietro l’ascesa cinese?
A livello economico l’indicatore più negativo è quello del debito che in termini aggregati supera il 300% del Pil. A preoccupare le autorità non è tuttavia il debito pubblico in quanto non elevato e quasi interamente detenuto in valuta locale dai cittadini, dalle banche e dalle aziende statali. La variabile critica è quella del debito privato che supera il 200% del pil, ma che comunque rispetto a quest’ultimo cresce a una velocità minore. Il problema c’è ma penso riusciranno a gestirlo
Il passaggio di testimone da Trump a Biden comporterebbe anche il passaggio da una retorica aggressiva in ambito commerciale, basata su tweet e dazi, a una meno espressa ma profondamente imbevuta nell’ideologia. L’universalismo americano, caro soprattutto ai democratici e a una certa elite, non potrà mai accettare che il centralismo prevalga sul liberismo e che un paese comunista diventi la prima potenza economica al mondo. Tenendo a mente che poi in verità quello cinese è un comunismo dai contorni molto capitalistici.
La battaglia si gioca anche in campo tecnologico. La Cina prevarrà sotto questo aspetto?
La situazione tecnologica è molto bilanciata. La Cina non può fare a meno degli Stati Uniti e viceversa. Nella catena di produzione di un microchip la Cina è molto forte nella parte bassa potendo contare su terre normali come silicio e germanio e su terre rare come cobalto, nichel e litio. Gli Usa sono i migliori invece nella manifattura di alta precisione di microchip che la Cina invece non sa fare. Anche su questo tema Xi Jinping è stato chiaro: in pochi anni la Cina sarà indipendente nella parte intermedia della catena di produzione.
Il passaggio da guerra commerciale a guerra ideologica giocherà a favore dell’Europa. Con Biden presidente la Cina non sarà più obbligata ad acquistare prodotti americani per soddisfare le richieste degli Stati Uniti e ciò permetterà all’Europa di scongiurare il rischio di perdere la domanda cinese. Dall’altra parte anche il vecchio continente alla stregua di tutto l’occidente sarà colpita dalla “dual circulation”, la cui circolazione esterna anche alla luce dei nuovi accordi commerciali si incentrerà in Asia. In tal modo la Cina assurge a protagonista assoluta sullo scacchiere asiatico, che conta l’80% della popolazione mondiale e il 30% in termini di pil, con conseguenza anche sul piano geopolitico. Il rischio è la creazione di due blocchi, contrapposti non solo geograficamente ma anche per una concezione dell’economia e dello stato molto diverse. La maggiore crescita del blocco asiatico potrebbe portare a un ripensamento dei paesi occidentali sul ruolo dello stato in economia. Soprattutto in Europa dove il liberismo funziona bene per alcune economie come Inghilterra e Germania, mentre per altre, come l’Italia, il cui tessuto industriale è poco flessibile, è più facile coglierne gli svantaggi.
Quali potrebbero essere le opportunità per le imprese italiane nel decennio cinese?
Le imprese italiane hanno una grande opportunità legata alla via della seta, con asse centrale in Africa. In particolare quelle operanti nell’energia e nelle infrastrutture. In quella parte del mondo c’è un grande bisogno ad esempio di costruzioni, ponti, acquedotti, treni e macchinari agricoli. La Cina ci investe da anni e noi dobbiamo andare a traino. In ballo ci sono grandi commesse, ma il tempo stringe e le opportunità non rimarranno li per sempre.