La proposta muove dalla considerazione che, data la frammentazione normativa riscontrabile nei vari Paesi membri della Ue in materia di imposizione sui redditi e sul capitale, l’uso di queste entità, opportunamente localizzate in Paesi a bassa tassazione, comporta lo spostamento di materia imponibile da un Paese all’altro creando indebiti vantaggi fiscali per i loro utilizzatori, vantaggi che alterano la sana competizione fra imprese e, quindi, distorcono il funzionamento del mercato comune. Il costo, in termini di perdita di gettito tributario, è stimato dalla Commissione in circa 20 miliardi di euro all’anno, per l’intera Europa.
In proposito, la Commissione ha anche ricordato che l’implementazione di una normativa di contrasto all’uso di entità di comodo non si pone in contrasto con l’introduzione (fra l’altro, ancora in fase di definizione) di una global minimum tax: la global minimum tax si applicherebbe, infatti, solo alle multinazionali sopra una data soglia dimensionale e, comunque, comporterebbe solo l’applicazione di un’aliquota di tassazione minima in tutti i Paesi, senza incidere sullo spostamento di materia imponibile dall’uno all’altro Paese, cosa, quest’ultima, resa possibile appunto mediante ricorso alle entità di comodo.
Cosa prevede la proposta
La proposta, che si prevede sarà applicabile dal 1° gennaio 2024, prende di mira le entità di qualunque tipo e in qualunque forma costituite che siano fiscalmente residenti nell’Unione europea e che presentino le seguenti caratteristiche:
- siano percettrici, per la maggior parte, di passive income, cioè di reddito generato da investimenti statici, come partecipazioni al capitale di altre società, finanziamenti erogati a società del gruppo, immobili, beni di elevato valore unitario (quali yacht, aerei, auto di lusso, opere d’arte e via dicendo), beni concessi in leasing finanziario, marchi, brevetti ed altre forme di proprietà intellettuale generatrice di royalty eccetera. La ragione per cui si è scelto di prendere di mira il passive income è che, di solito, è il tipo di reddito che viene generato da attività economiche geograficamente mobili, cioè tali da essere facilmente spostabili da un Paese all’altro;
- agiscano in un contesto cross-border. La ragione di questo requisito è duplice: da un lato, se un’entità agisce in un contesto puramente domestico non è tipicamente in grado di spostare materia imponibile da uno Stato (ad alta tassazione) a un altro (nel quale il prelievo fiscale è più basso); dall’altro, la Commissione ritiene che in un contesto puramente domestico il contrasto all’elusione e all’evasione fiscale sia più efficacemente effettuato dal legislatore nazionale, anziché da quello comunitario;
- abbiano risorse inadeguate per il proprio funzionamento o, in altre parole, siano dotate di insufficiente sostanza economica. Ciò può accadere, ad esempio, nel caso di società sprovviste di uffici e personale, che abbiano dato in outsourcing la maggior parte delle proprie funzioni e i cui amministratori non siano residenti nel Paese della società o, comunque, non siano geograficamente abbastanza vicini a tale società per poterla amministrare efficacemente.
Per ciascuna di queste caratteristiche sono previste determinate soglie. Così, un’entità viene definita reporting undertaking se:
- ha percepito, nei due anni precedenti, più del 75% del suo reddito sotto forma di passive income. In proposito, va ricordato che, secondo la proposta di direttiva, rientrano nella nozione di passive income i seguenti elementi di reddito:
o interessi e ogni altro provento da attività finanziarie (incluse le cripto-valute), royalty e altri proventi derivanti dallo sfruttamento da proprietà intellettuale, attività immateriali e ogni tipo di licenza o permesso negoziabile, dividendi e proventi da cessione di azioni;
o reddito da beni immobiliari o derivante da beni mobili (esclusi denaro, azioni e titoli) detenuti per uso privato e aventi valore contabile superiore a un milione di euro (o, se l’entità non ha percepito redditi di questo tipo, possesso di beni di questo tipo per importo superiore al 75% del totale delle attività dell’entità);
o reddito derivante dalla concessione di beni in locazione finanziaria, reddito da attività bancaria, assicurativa o altre attività finanziarie, reddito derivante da servizi concessi in outsourcing ad altre entità del medesimo gruppo;
- esercita attività cross-border secondo uno qualunque dei seguenti schemi:
o più del 60% del valore contabile delle attività immobiliari o di quelle mobiliari detenute per uso privato dell’entità era localizzato fuori dal territorio del Paese di residenza fiscale dell’entità; oppure
o almeno il 60% del passive income dell’entità deriva da operazioni cross-border;
- nei precedenti due anni, l’entità ha dato in outsourcing l’amministrazione delle proprie attività ordinarie e l’attività decisionale in materie significative.
In deroga al criterio di cui sopra, una serie di soggetti è esplicitamente esclusa dalla definizione di reporting undertaking e, dunque, dalla relativa disciplina. Si tratta, in sostanza, di soggetti aventi un elevato grado di trasparenza, per i quali non si è ritenuto concreto il rischio che possano essere utilizzati per finalità elusive o di evasione fiscale. Fra questi rientrano società quotate in mercati regolamentati o con azioni negoziate in sistemi multilaterali di negoziazione, entità residenti nel medesimo Paese in cui sono localizzati i propri soci, sub-holding residenti nel medesimo Paese in cui sono localizzati sia i soci sia le società partecipate, entità soggette a regolamentazione finanziaria (ad esempio, istituzioni finanziarie soggette a vigilanza regolamentare, quali banche, assicurazioni, fondi pensioni, Ucits e loro gestori, alternative investment funds e loro gestori, veicoli di cartolarizzazione eccetera) ed entità che abbiano almeno 5 dipendenti a tempo pieno dedicati all’esecuzione delle attività generatrici di passive income.
Secondo la proposta di direttiva, le entità che rientrano nella definizione di reporting undertaking devono indicare nella propria dichiarazione annuale dei redditi (fornendo, inoltre, sufficiente documentazione a supporto) se dispongono di uffici e locali per l’esercizio della propria attività, sono titolari di almeno un conto corrente bancario nell’Unione europea e, inoltre, se, alternativamente:
- uno o più amministratori dell’entità siano residenti nello Stato di residenza dell’entità (o abbastanza vicini alla sede della medesima), siano qualificati e dispongano dei relativi poteri per prendere decisioni circa l’entità e lo facciano abitualmente e non siano dipendenti o amministratori di altre entità non appartenenti al gruppo del quale il reporting undetaking eventualmente faccia parte; oppure
- la maggior parte dei dipendenti dell’entità siano residenti nello Stato di residenza dell’entità (o abbastanza vicini alla sede della medesima).
Se le informazioni (e la documentazione) di cui sopra sono giudicati sufficienti dall’autorità fiscale del Paese in cui è fiscalmente residente il reporting undertaking, si presume che il medesimo abbia sostanza economica sufficiente, altrimenti si presume (con presunzione che ammette la prova contraria) che il medesimo undetaking non abbia sostanza economica sufficiente. In questo secondo caso, la proposta di direttiva prevede:
- la disapplicazione delle disposizioni dei trattati contro la doppia imposizione altrimenti applicabili e delle esenzioni da ritenute e tassazione sui dividendi previste dalla direttiva Ue madre-figlia nonché dell’esenzione da ritenute su interessi e royalty prevista dalla direttiva Ue interessi e royalty;
- la tassazione del reddito percepito o maturato dal reporting undertaking nel Paese di residenza del suo azionista o socio nel caso quest’ultimo si fiscalmente residente nella Ue o la tassazione nel Paese di residenza del pagatore di tale reddito, tramite ritenute applicate dal pagatore, altrimenti (in entrambi i casi, le imposte eventualmente già pagate dal reporting undertaking sul proprio reddito possono essere scomputate);
- l’applicazione di sanzioni non inferiori al 5% dei ricavi complessivi del reporting undertaking.
È, inoltre, previsto che gli Stati membri scambino le informazioni acquisite in relazione a quanto sopra nel contesto del Common reporting system europeo e che ciascuno Stato membro possa chiedere che l’autorità fiscale di un altro Stato membro esegua ispezioni fiscali in relazione a soggetti di cui sopra e scambi le relative informazioni.
L’impatto della proposta
Come si può vedere, l’introduzione della disciplina attualmente contenuta nella proposta di direttiva avrebbe un impatto molto significativo in almeno tre settori.
L’impatto più significativo si avrebbe sulle strutture di holding utilizzate per la gestione di larghi patrimoni. La proposta sembra, infatti, molto efficace nel colpire casseforti quali trust, società immobiliari e sub-holding di partecipazioni che sono tipicamente utilizzate in questi casi. È vero che l’obiettivo della proposta sono le entità di comodo con insufficiente sostanza economica residenti ai fini fiscali nell’Unione Europea e che, quindi, quelle localizzate fuori dall’Europa non dovrebbero essere interessate. Tuttavia, va tenuto presente che, nella grande maggioranza di casi, gli investimenti immobiliari e finanziari in Europa non sono detenuti direttamente da entità completamente off-shore, ma tramite sub-holding e veicoli localizzati nella Ue, cioè proprio tramite quelle entità potenzialmente soggette alle nuove disposizioni. In questi casi (che poi sono spesso quelli in cui si generano vantaggi fiscali) l’impatto potrebbe essere notevole e costringere a una revisione o a un ripensamento delle strutture di holding.
Un secondo impatto rilevante si avrebbe sulle multinazionali. In questo ambito è frequente il ricorso a entità holding europee per vari fini, dall’ottimizzazione fiscale dei flussi di interessi, dividendi e royalty (ad esempio, al fine di avvalersi di regimi europei di esenzione dalle ritenute che tipicamente colpiscono questi flussi reddituali) allo sfruttamento di regimi di europei di patent box (ad esempio, localizzando marchi, brevetti, licenze ed altra proprietà intellettuale presso una società del gruppo localizzata in un paese a bassa tassazione, in modo che questa conceda l’utilizzo della proprietà intellettuale alle altre società del gruppo in cambio di royalty).
In questo caso, la risposta delle multinazionali potrebbe essere duplice: alcune potrebbero pensare a smontare le proprie strutture di holding e sub-holding (andando incontro ad una maggiore tassazione in Europa), mentre altre potrebbero pensare di rafforzare la sostanza economica delle proprie sub-holding europee, attribuendo loro funzioni operative e dotandole di asset, uffici e personale, cosa, questa, che forse potrebbe essere addirittura ben vista (e magari implicitamente voluta) dalla Commissione Ue, perché si tradurrebbe in maggiore occupazione e maggiore creazione di valore in Europa (e, peraltro, entro certi limiti anche in maggiore reddito imponibile).
Il terzo settore che potrebbe essere potenzialmente colpito dalla proposta di direttiva è quello dei fondi di investimento. Molti di questi fondi, infatti, non sono localizzati nella Ue, ma investono in Europa tramite strutture articolate, con l’utilizzo di varie scatole societarie. La ragione è duplice: da un lato, strutture di questo tipo sono rese necessarie per contenere i rischi derivanti dall’attività di investimento, rischi che non devono riversarsi sugli investitori finali che, altrimenti, semplicemente non investirebbero. La seconda ragione è di natura tributaria: i proventi di questi fondi sono normalmente tassati in capo agli investitori finali, talché ogni forma di tassazione applicata a livello intermedio, sul flusso di proventi che risale la struttura fino a raggiungere gli investitori finali, risulterebbe, in sostanza, una forma di doppia tassazione che potrebbe incidere anche pesantemente sul ritorno finanziario finale.
È vero che, come più sopra osservato, sono previste esenzioni per varie categorie di soggetti finanziari regolamentati, fra i quali veicoli di cartolarizzazione, Ucits e alternative investment fund, spesso utilizzati dai gestori di fondi, ma bisogna ammettere che in alcuni settori (ad esempio, nel private equity), questi veicoli non trovano vasta applicazione. In questi settori, non potendosi, per ovvi motivi, dotare i veicoli intermedi di attività, personale e funzioni di business (perché questo incrementerebbe il rischio che gli investitori finali non vogliono assumere) è probabilmente opportuno un ripensamento delle strutture di investimento, eventualmente pensando anche all’utilizzo di veicoli regolamentati. In questa prospettiva, probabilmente gli alternative investment fund (o, per certi versi, i veicoli di cartolarizzazione) potrebbero costituire una buona soluzione, risultando sufficientemente flessibili e duttili per adattarsi a molteplici situazioni.