Mai così in basso da metà 2020. Il bitcoin letteralmente sprofonda, caracollando verso i 20.000 dollari nella mattinata di martedì 14/6/2022 (-20% dalla seduta di venerdì 10 giugno). Ovvero a quasi un terzo del valore (69.000 dollari) che aveva raggiunto a novembre 2021 e meno della metà dei 47500 dollari con cui aveva iniziato il 2022 (dati Bloomberg). In altri termini: la sua capitalizzazione di mercato è passata dai 3200 miliardi di dollari di novembre ai 1000 attuali. La spirale di ribassi in cui si è infilato il BTC non accenna ad arrestarsi, trascinando con sé le altre criptovalute e le azioni delle società tech coinvolte (MicroStrategy e Coinbase su tutte, a Wall Street). Lunedì 13 giugno la borsa delle crypto, Binance, ha crashato per diverse ore, bloccando di fatto i riscatti di bitcoin.
Un esito non diverso dal comportamento messo in atto da Celsius, la piattaforma di prestiti e finanziamenti cripto, la quale – contravvenendo a tutte le dichiarazioni precedenti – aveva bloccato i prelievi citando «le condizioni di mercato estreme». Per la cronaca, il valore degli asset su Celsius è passato dai 24.000 miliardi di dollari di dicembre agli attuali 12.000 miliardi. Le piogge di vendite (quando possibili…) non si arrestano, alimentando la svalutazione dei crypto asset. E poco importa se la stessa Binance ha dichiarato via Twitter per mezzo del suo ceo Changpeng Zhao che il crash è stato determinato da una transazione non andata a buon fine (“stuck”).
La madre di tutte le cryptovalute sta scontando il restringimento delle condizioni di politica monetaria sulla scorta delle fiammate inflazionistiche 2022. Con i tassi di interesse in rialzo, ci sarà meno liquidità nel sistema, e gli investitori saranno (e già sono) meno disponibili ad allocare fondi nei mercati non mainstream. Che avesse ragione Warren Buffett? Le parole del guru della finanza risuonano predittrici.
Ma in mezzo a questo crollo di valore, c’è un guadagno inaspettato: quello ambientale. Dal momento del suo picco di novembre 2021 la stima del consumo annuo di energia del bitcoin è stata fra i 180 e i 200 terawattora (TWh). Ovvero, lo stesso ammontare di elettricità che consumano ogni anno tutti i centri dati del mondo (o quanto l’intera Irlanda). Secondo i dati elaborati dall’economista delle criptovalute Alex de Vries (lo riporta The Verge), alla rete di minatori crypto conviene minare queste valute fino alla soglia dei 25.200 dollari. Al di sotto di questa soglia, le bollette dell’energia elettrica diventerebbero troppo costose rispetto ai guadagni. Se i ribassi dovessero permanere, i miners potrebbero decidere di rallentare la loro attività, o addirittura di metterla in pausa. Le ricadute ambientali sarebbero indubbie. Anche se, ammonisce de Vries, «è troppo presto per dire se l’attuale tonfo del prezzo del bitcoin sarà benefico per l’ambiente».
Un prezzo che si stabilizzi intorno ai 24.000 dollari potrebbe far diminuire il consumo energetico a 170 TWh annui, stima l’economista. Un cambiamento di natura incrementale (non massiccia, si intende), ma che comunque avrebbe un impatto non irrisorio sulla bolletta energetica del pianeta e sulla riduzione delle emissioni dei gas serra. Il guadagno ambientale sarà ancora maggiore se si pensa che anche le altre criptovalute, come l’Ethereum (la cui rotta è in direzione 1100 dollari), stanno calando di valore. Secondo Alex de Vries ciò porterà a una reale contrazione dei gas serra, posta la sempre minor convenienza relativa a minarle.
Un piccolo ripasso. Cosa significa minare una criptovaluta? Risolvere problemi sempre più complessi tramite hardware specializzati. Ciò serve per verificare ogni transazione. I minatori, per questa loro attività, ricevono in cambio altri token. L’inefficienza energetica insita in questo tipo di operazioni si deve all’elevata potenza di calcolo necessaria a validare le transazioni, che dunque consumano moltissima energia elettrica. È anche un modo per dissuadere l’ingresso di nuovi minatori in quel mercato.