Nonostante le turbolenze degli ultimi anni, la passione per l’investimento immobiliare rimane immutata nel tempo. Con delle novità: in Italia è aumentata la voglia di case nuove. Il grande interesse per il mercato delle case di nuova realizzazione ha, infatti, iniziato ad aumentare a partire dal 2017, con una crescita media annua nell’ultimo quinquennio del 7,8%. E se nel 2022 le compravendite di immobili nuovi sono salite del 10%, per la fine del 2023 è previsto un ulteriore incremento del 2,7%, a fronte di un calo dell’8% delle compravendite delle case vecchie.
Anche i prezzi sono visti in rialzo. Con un incremento medio di oltre il 3% negli ultimi due anni, si prevede che i valori continuino a salire anche nel 2023, dove l’aumento è stimato del 4,6%. Ma l’offerta è ancora bassa e nelle grandi città si attesta soltanto intorno al 10% del totale.
Il mercato del nuovo
“Alla fine del 2022 gli scambi a livello nazionale di case di nuove costruzione sono stati circa 74mila, con un aumento di circa 10 punti percentuali sul 2021, un anno record che aveva segnato una crescita del 34% rispetto al 2020, in parte a causa della pandemia”, ha illustrato Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari presentando il primo Osservatorio sull’abitare futuro, realizzato dalla società insieme ad Abitare Co. E anche il 2023 sta andando bene.
Le aree più interessate dalle nuove costruzioni
Ovviamente, il maggior numero di costruzioni e interventi si trova nelle grandi città, con Milano capolista, seguita da Roma. Come emerge, infatti, dallo studio di Scenari Immobiliari e Abitare Co., soltanto sul mercato di Roma e Milano ci sono 17.400 case nuove, pari al 75,7% del totale degli immobili in vendita nelle principali 11 città italiane, pari a 23mila. C’è solo un’altra città che offre sul mercato oltre mille nuove abitazioni ed è Firenze con 1.450 unità immobiliari.
Tra le maggiori città del Paese, all’ultimo posto per case nuove in offerta c’è Catania con 200 abitazioni, mentre a Palermo sono 350. Anche a Napoli c’è poca dinamicità e l’offerta di abitazioni nuove raggiunge 450 unità immobiliari. A Torino, che per numero di abitanti non è di molto inferiore a Napoli, il numero di case nuove in vendita è il doppio (900 unità). Ci sono poi Bari e Bologna, rispettivamente con 750 e 850 abitazioni nuove in vendita, che staccano nettamente Genova con solo 400 immobili in offerta sul mercato.
L’area urbana più coinvolta dalle nuove costruzioni è la periferia, visto che in termini
percentuali tocca il 63,5%, a fronte di quote del 25,5% e dell’11,5% rispettivamente per l’area
semicentrale e per quella centrale, mentre i centri città meno coinvolti nelle nuove iniziative
residenziali sono – senza grandi novità – quelli di Roma, Milano, Bologna, Napoli e Venezia.
“In particolare, a Milano, lo sviluppo dei nuovi cantieri si caratterizza, partendo dal centro con poche e rare iniziative, spesso attraverso operazioni di totale riqualificazione di immobili esistenti che avevano una differente destinazione d’uso, fino ad arrivare alle aree della periferia – ha spiegato Francesca Zirnstein, direttore generale di Scenari Immobiliari – Ci sono poi i grandi cantieri inseriti in aree che stanno trasformando il volto della città e che sono legati agli sviluppi di rigenerazione urbana, come quelli degli scali ferroviari”.
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Lo scarto di prezzo tra una casa nuova e una usata
“Lo scarto medio fra il prezzo di una casa nuova e quello di una usata per gli 11 principali comuni capoluogo analizzati nel nostro studio è del 37,4%, con una differenza di 1.800 euro al metro quadrato: il ‘nuovo’ costa un terzo più dell’usato, ma perché le case sono ben fatte e incontrano il gusto dei compratori”, ha dichiarato Breglia.
Entrando più nel dettaglio, a Milano la differenza di prezzo arriva a quasi 3.400 euro al metro quadrato, pari al 43,2%, e stacca nettamente Firenze, seconda in classifica con quasi 3mila euro al m2, con una differenza del 36,5% fra il valore del nuovo e dell’usato. Al 3° posto c’è poi Roma, dove lo scarto è del 33,9%.
La situazione del mercato italiano e i gap da superare
“In Italia, l’offerta è troppo bassa, soprattutto se la si confronta contro una media delle grandi città europee che si avvicina al 20% sul totale offerta cittadina”, ha risposto Breglia.
“La prevalenza di assetti proprietari fortemente frammentati nel settore residenziale è l’elemento che più di tutto frena la realizzazione di una pipeline di possibili operazioni di costruzione di nuovo prodotto”, ha illustrato Marco Daviddi (Ey), spiegando che in Italia esistono degli ambiti sui quali si può operare, che hanno molto a che fare con i temi della rigenerazione urbana, ma che prevedono (però) delle procedure urbanistiche normalmente complicate, perché si attuano sempre nell’ambito di cambi di destinazione d’uso (come per esempio, gli scali ferroviari, il patrimonio immobiliare pubblico non utilizzato, gli immobili a uso uffici non utilizzati etc). “Abbiamo circa 8 milioni di m2 di prodotto con queste caratteristiche che potrebbero essere oggetto di operazioni di rigenerazione”, ha stimato Daviddi, ricordando che il problema di fondo resta la burocrazia.
C’è poi un’altra possibilità, che riguarda l’efficientamento del patrimonio pubblico. “Nel nostro Paese, abbiamo circa 31 milioni di mq di immobili residenziali che sono di proprietà in larga parte dei comuni. Basterebbe definire dei meccanismi di efficientamento gestionale anche solo del 5% su questo tipo di stock per poter liberare 1-2 milioni di m2 che possono poi anche fare da volano per progetti più ampi di rigenerazione urbana, che hanno come obiettivo finale quello di portare un prodotto nuovo sul mercato, capace di rispondere alle nuove esigenze espresse da una domanda che fatica a trovare le soluzioni desiderate”, ha aggiunto Daviddi.
Cosa cercano e come si comportano i protagonisti del mercato
“In questo momento, il nostro atteggiamento è di chi osserva”, ha risposto Giovanni Benucci (Fabrica Immobiliare sgr), aggiungendo che sono tanti i fattori che si mettono di traverso: il costo dei materiali, l’incremento dell’inflazione e l’aumento dei tassi. “E questo genera un ambiente non favorevole allo sviluppo di nuove iniziative”, ha proseguito Benucci, che poi ha precisato che
dei circa 5,5 miliardi di euro che gestiscono, circa il 25% lo hanno investito sul residenziale (in tutte le sue sfaccettature, multi-family, student housing, senior housing, Rsa, etc).
Il problema è che un investitore istituzionale cerca un prodotto residenziale a reddito, “ma la disciplina fiscale italiana rende impossibile un investimento di questo tipo, perché la fiscalità sul residenziale è costruita male – ha detto Benucci – Poi non ci possiamo stupire che ci siano poche case o pochi spazi per gli studenti. Siamo in un ambiente macro che non favorisce lo sviluppo del nuovo, dove l’investitore istituzionale italiano, che è pure un investitore paziente e non opportunistico o aggressivo come un investitore internazionale, non viene accompagnato e viene lasciato fuori dalla porta da un sistema che è normativamente sbagliato”.
Un operatore che vanta una lunga storia nel residenziale è per esempio Generali, che negli ultimi decenni ha portato avanti diverse iniziative di sviluppo residenziale. Negli ultimi cinque anni, però, il gruppo ha avviato un processo di ripensamento su questo specifico settore ma ora sta ritornando. “Oggi la società vanta un patrimonio di circa 8,2 miliardi di euro (sull’immobiliare, ndr), che rappresenta circa l’11% dell’interno patrimonio del gruppo”, ha spiegato Mavilo Colianni (Generali Real Estate), precisando che investono prevalentemente in edifici di nuova costruzione, o che sono stati rigenerati, che hanno per oggetto asset in locazione rivolti alle nuove generazioni (di studenti, lavoratori, ma anche di famiglie, ossia sul cosiddetto prodotto multi-family) e che lo stanno facendo non soltanto nelle principali città italiane, ma in tutte le principali città europee.
“Le ragioni che ci spingono a investire in questo settore (soprattutto nel residenziale a reddito e nel built to rent) e a riconsiderarlo maggiormente rispetto al passato sono: la resilienza del prodotto, la sua caratteristica di essere un investimento meno ciclico di altre asset class, il legame con i trend demografici e sociali e la ridotta volatilità del prodotto rispetto alle altre forme di investimento”, ha concluso Colianni. Aspetti, questi, che per un investitore istituzionale di lungo termine si traducono in stabilità dei flussi di cassa e in un’elevata liquidità del conto stesso, oltre a un’ampia diversificazione che questo prodotto può dare rispetto ad altre asset class.
(Articolo tratto dal magazine We Wealth di giugno 2023)