Le misure restrittive alla circolazione delle persone imposte dagli Stati hanno stravolto le modalità ordinarie di svolgimento del lavoro di molti expatriates che, improvvisamente, hanno dovuto continuare a prestare la propria attività lavorativa prevalentemente da remoto
Le restrizioni ai movimenti hanno sollevato questioni in materia di residenza fiscale e con riferimento all’applicazione delle retribuzioni convenzionali
Sono numerosi, infatti, i dipendenti che, a causa delle misure di sicurezza imposte dagli Stati, hanno dovuto lavorare in regime di smart-working dalla propria abitazione, pur svolgendo – fino a quel momento – la propria attività lavorativa all’estero; attraverso l’istituto del distacco o attraverso contratti di lavoro di diritto estero.
Nel dettaglio, la società istante chiedeva all’Agenzia se, la circostanza che alcuni dipendenti, nel 2020, avessero trascorso la maggior parte del tempo in Italia, anziché in Cina, avesse implicazioni sullo status di residenza; stante il fatto che la permanenza (in questo caso in Italia) di un soggetto per la maggior parte dell’anno fiscale (184 giorni) comporta, in linea di principio, una modifica nella residenza fiscale.
Sotto il profilo della normativa italiana, viene in rilievo l’art. 2, 2 comma del Tuir, a mente del quale, si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.
Sotto il profilo della normativa convenzionale, occorre considerare le regole del Trattato che l’Italia ha stipulato con la Cina per dirimere eventuali conflitti di residenza tra gli Stati contraenti. Dette regole fanno prevalere il criterio dell’abitazione permanente cui seguono, in ordine gerarchico, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità.
Ciò considerato, ad avviso dell’Agenzia, poiché i lavoratori distaccati in Cina hanno lavorato da remoto in Italia per la maggior parte del periodo dell’anno, devono essere considerati a tutti gli effetti residenti in Italia; a nulla rilevando la circostanza che il lavoro fosse prestato alle consociate cinesi.
Una simile constatazione, comporta, ad avviso dell’Agenzia delle entrate, l’impossibilità di applicare la disciplina fiscale prevista dall’art. 51 del Tuir, comma 8-bis, secondo cui il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro.