Quando si devono incassare i dividendi pagati da imprese straniere, la complessità del fisco italiano si somma a quella dei Paesi di provenienza delle società. Alla fine, sui dividendi esteri si pagheranno le tasse due volte: la prima volta al Paese di residenza dell’impresa e una seconda al fisco italiano. E’ una penalizzazione di cui tenere conto se l’obiettivo dell’investimento è proprio incassare dividendi sostanziosi.
Nel caso più semplice, le azioni saranno state acquistate presso un intermediario italiano con funzione di sostituto d’imposta, ad esempio attraverso il conto titoli della propria banca (le regole cambiano se l’intermediario non ha sede in Italia, come nel caso di broker quali eToro o DeGiro).
In questa situazione, la banca tratterrà e verserà per conto dell’investitore la tassa italiana sui dividendi al 26%. Nel caso di un’azione estera, tale imposta verrà calcolata sulla base del dividendo già decurtato delle tasse del Paese di residenza dell’impresa: questa base imponibile si chiama “netto frontiera”.
E’ questa la principale differenza rispetto ai dividendi distribuiti dalle società italiane: ma quanto incide questo prelievo fiscale alla fonte?
Il discorso si complica a partire da qui. In primo luogo, la tassazione sui dividendi cambia a seconda del Paese di provenienza, per cui il netto frontiera andrebbe calcolato caso per caso. In più, bisogna considerare l’esistenza di convenzioni bilaterali, con le quali l’Italia ha concordato limitazioni alla doppia tassazione. Queste ultime riducono il netto frontiera, a patto di riuscire a farsele riconoscere.
Un esempio di accordo bilaterale riguarda le azioni statunitensi, il cui “netto frontiera” decurta i dividendi percepiti dagli azionisti italiani del 15%, anziché del 30%. Per poter beneficiare di questo “sconto” sulle tasse pagate negli Usa, però, l’intermediario presso il quale si sono acquistate le azioni deve accertarsi che il percettore del dividendo sia residente in Italia, facendogli compilare un apposito modulo del fisco americano, il W-8BEN (Certificate of Foreign Status of Beneficial Owner for United States Tax Withholding).
Nel caso sia intervenga la tassazione “ridotta”, l’aliquota complessiva pagata sui dividendi delle aziende Usa sarà comunque del 37,1%, fra tasse americane ed italiane. In caso contrario, senza applicazione della convenzione, le tasse ammonteranno al 48,2%.
Lo stesso dividendo, se fosse erogato da una società italiana, godrebbe di una tassazione del 26%. Queste differenze sono molto importanti nella logica dell’investitore cassettista, che di solito prevede di tenere a lungo le azioni in portafoglio per incassare flussi di reddito periodici.
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Le complessità “burocratiche”
Lo Stato italiano ha stretto numerosi accordi per limitare la doppia imposizione sui redditi delle società e la lista completa può essere consultata qui. Nella maggioranza di queste convenzioni, si stabilisce che l’imposta del Paese di residenza dell’impresa non può superare il 15% per le partecipazioni azionarie non qualificate (ossia quelle tipiche dei piccoli risparmiatori).
Purtroppo, nella pratica, espletare i passaggi burocratici che permettono di accedere a queste convenzioni non sono affatto semplici, e questo complica la vita dei cassettisti che vorrebbero puntare sulle aziende straniere. In assenza di certificazione, l’aliquota applicata deriva dalla sommatoria delle tasse estere e italiane sui dividendi, senza alcuno sconto. Questo penalizza ulteriormente il flusso di dividendi esteri che finiscono effettivamente in tasca agli investitori.
La tassazione delle plusvalenze, invece, non fa distinzioni fra azioni italiane o straniere: la differenza fra il prezzo di acquisto e quello di vendita, se comporta un profitto, viene tassata sempre al 26% e solo in Italia.