I cittadini Ue che intendono rimanere in Italia per più di tre mesi e i cittadini Extra-Ue con regolare permesso di soggiorno devono iscriversi all’anagrafe della popolazione residente.
Da un punto di vista fiscale, l’acquisizione della residenza anagrafica produce effetti che dovranno essere valutati al momento della pianificazione del trasferimento.
La residenza anagrafica
La residenza anagrafica determina il collegamento con il territorio dello Stato da cui discende l’esercizio di alcuni diritti costituzionali quali, ad esempio, l’accesso al Servizio Sanitario Nazionale.
Ai fini amministrativi, la residenza anagrafica richiede l’iscrizione presso l’ufficio anagrafico di un Comune italiano (art. 1, legge n. 1228/1954), previa attribuzione del codice fiscale, da richiedere all’Agenzia delle Entrate e l’individuazione del luogo di dimora.
Sono soggetti a tale obbligo sia i cittadini Ue, dopo tre mesi dall’ingresso in Italia, sia i cittadini extra-Ue: per questi ultimi la procedura di iscrizione anagrafica è subordinata all’ottenimento del visto presso il Consolato estero e al positivo rilascio del relativo permesso di soggiorno, per il quale potrebbero volerci, a seconda dei visti, dai 5 ai 9 mesi circa. Peraltro, nel caso in cui l’ingresso in Italia sia avvenuto a seguito di rilascio del visto di ingresso per lavoro o ricongiungimento familiare, la pratica di iscrizione anagrafica può essere intrapresa anche con la sola ricevuta di richiesta del permesso di soggiorno.
La procedura d’iscrizione anagrafica non è immediata: tra la richiesta e l’avvio del procedimento passano, infatti, circa 2 mesi e da questo momento decorrono ulteriori 45 giorni per gli adempimenti necessari a verificare l’effettiva presenza della persona nel luogo di dimora dichiarato e la veridicità delle informazioni rese nella domanda di iscrizione (art. 4, legge n. 1228/1954). In ogni caso, l’iscrizione anagrafica decorrerà dalla data di presentazione della domanda, con le implicazioni fiscali di cui si dirà più avanti.
Al cittadino extra-Ue è richiesto inoltre di rinnovare la dichiarazione di dimora abituale nel Comune di residenza entro 60 giorni dalla data di rinnovo del permesso di soggiorno.
La differenza tra residenza e domicilio ai sensi del Codice civile italiano
Come sopra descritto, la residenza anagrafica si sostanzia nell’indicazione formale del luogo in cui la persona ha la dimora abituale.
Da un punto di vista sostanziale, il concetto di residenza è definito dal Codice civile che, all’art. 43, distingue tra:
• domicilio, vale a dire il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi;
• residenza, definita come il luogo in cui la persona ha la dimora abituale.
Spesso domicilio e residenza si concentrano nello stesso luogo, ma altrettanto frequentemente la vita personale ed economica di un soggetto può svolgersi in più luoghi: per tale motivo, le definizioni della legge meritano alcune ulteriori riflessioni.
Il domicilio
La definizione normativa indica nel domicilio il luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi, intesi come le relazioni personali, sociali, morali ed economiche. Rientrano in tale definizione, ad esempio, gli interessi che attengono alla vita coniugale o che confluiscono nel luogo in cui vive la famiglia o le relazioni personali più strette.
Tale è l’importanza del concetto di affari ed interessi che, addirittura, non è richiesta la presenza fisica del soggetto in quel luogo perché qui sussista il domicilio. Ciò che rileva, quindi, è il solo elemento soggettivo e, cioè, la volontà della persona di stabilire e conservare in un certo luogo appunto la sede principale dei propri affari ed interessi.
Peraltro, ai fini amministrativi, la scelta del domicilio così inteso non richiede alcuna formalità e, quindi, non dovrà essere comunicata al Comune competente.
La residenza
La residenza differisce concettualmente dal domicilio perché la sua individuazione richiede la combinazione di due elementi, l’uno soggettivo e l’altro oggettivo. Sono infatti necessari sia la permanenza fisica abituale del soggetto in un determinato luogo (la dimora), sia l’intenzione di abitarvi stabilmente, come rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali.
Come detto, il luogo di dimora abituale e, quindi, di residenza deve essere comunicato al competente ufficio anagrafico.
Iscrizione anagrafica, residenza e domicilio rilevano anche ai fini tributari italiani per determinare il regime fiscale applicabile ai redditi prodotti dal soggetto.
La residenza ai fini tributari italiani
Per il diritto tributario italiano, il concetto di residenza assume un’ulteriore e specifica connotazione. La normativa fiscale, infatti, distingue gli obblighi tributari gravanti su un soggetto a seconda che questi sia o meno fiscalmente residente in Italia. Nel primo caso, il soggetto sarà tassato su tutti i redditi ovunque prodotti, in applicazione del “worldwide income principle”. Il soggetto fiscalmente non residente in Italia, invece, sarà tassato solo per i redditi di fonte italiana (art. 23 Tuir).
Ai fini delle imposte sui redditi (art. 2, secondo comma, Tuir) si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.
Al riguardo, se l’individuazione del luogo di dimora abituale (“residenza”) può trovare un riscontro oggettivo, l’individuazione del domicilio, vale a dire il luogo in cui si trovano gli interessi vitali del soggetto, merita un’attenzione particolare. A livello nazionale, la Corte di Cassazione ha dato valore prioritario al luogo in cui si trovano gli interessi personali e famigliari (cassazione civile, sentenza n. 6501/2015) conformandosi, quindi, ai principi emanati a livello Ocse. In questo senso, le circostanze prese in considerazione sono state, ad esempio: la presenza fisica del soggetto e dei suoi famigliari in Italia, la disponibilità di un’abitazione o, ancora, il luogo in cui si trovano le scuole frequentate dai figli (cassazione civile, sentenze n. 9856/2008 e n. 13803/2001).
In alcune pronunce più recenti, tuttavia, nello stabilire il luogo del domicilio la Suprema Corte sembra aver dato valore preminente agli interessi economici (Cassazione civile, sentenze nn. 11620/2021 e 3992/2021).
I principi sopra esposti devono in ogni caso essere applicati tenendo conto del requisito temporale richiesto dalla norma e, cioè, verificando la sussistenza in Italia dell’iscrizione anagrafica, del domicilio o della residenza “per la maggior parte del periodo di imposta”. Occorre, quindi applicare un criterio di prevalenza numerica: se anche una delle tre condizioni di cui sopra sussiste per più di 183 giorni durante l’anno solare (o 184 se l’anno è bisestile), allora la persona fisica sarà considerata fiscalmente residente in Italia, per l’intero periodo di imposta.
Di base, quindi, l’iscrizione anagrafica che sia avvenuta tra il 1° gennaio e il 2 luglio e che sia mantenuta continuativamente in detto periodo, soddisfa il requisito temporale richiesto dalla norma, comportando l’acquisizione della residenza fiscale italiana per l’intero anno.
I casi di “doppia residenza” fiscale
Nel caso in cui il trasferimento della residenza avvenga nel corso dell’anno, l’applicazione della normativa fiscale italiana può condurre a fenomeni di “doppia imposizione” o, anche, di “doppia non imposizione”, visto che, nella maggioranza dei casi un soggetto si considera residente nello Stato in cui ha fissato il domicilio e la residenza, in proporzione al numero di giorni effettivamente trascorsi in tale Stato.
Al riguardo, si segnala che la maggioranza delle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulati dall’Italia contiene dei criteri per risolvere le ipotesi di doppia imposizione (cd. “tie breaker rule”). Tali criteri, in ordine di priorità, sono:
– la dimora abituale; oppure, in caso di dimora abituale in entrambi gli Stati,
– il domicilio; in caso di domicilio in entrambi gli Stati oppure in assenza di una dimora abituale, è possibile fare riferimento a,
– il luogo di soggiorno abituale. Laddove tali regole non siano applicabili si può fare riferimento a
– la nazionalità, oppure
– ai criteri convenuti dagli Stati nel caso concreto.
Infine, si segnala che il Commentario Ocse prevede di applicare le cd. “tie breaker rule” anche nel caso in cui la doppia residenza si verifichi con riferimento ad una frazione di anno (cd. “split year”). Secondo l’Agenzia delle entrate, però, la possibilità di frazionamento del periodo d’imposta sarebbe applicabile (cfr. risoluzione 3 dicembre 2008, n. 471/E), solo quando il criterio in questione è previsto in modo specifico dalla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata dall’Italia con l’altro Stato coinvolto e, quindi, nei soli casi di applicabilità delle Convenzione stipulate dall’Italia con la Svizzera e la Germania.