La risposta, infatti, non ha tardato ad arrivare. L’Europarlamento, con la risoluzione del 21 gennaio 2021, ha (bacchettato e) invitato il Consiglio e la Commissione a rafforzare l’elenco utilizzando criteri di inserimento più rigorosi e imparziali.
Ma cos’è la black list europea?
La lista dei paesi black list (detti anche paradisi fiscali) è un elenco di nazioni, non appartenenti all’Unione europea, in cui vige un regime fiscale “privilegiato”, ossia un regime caratterizzato da una tassazione molto bassa oppure nulla, nonché l’assenza di un meccanismo che garantisca lo scambio di informazioni fiscali con altri Paesi. L’Unione europea ha adottato il suo primo elenco di giurisdizioni non cooperative a fini fiscali (contenente 17 Paesi extra Ue) il 5 dicembre 2017, modificandolo ben 12 volte sulla base dei seguenti tre criteri: trasparenza fiscale, equità fiscale e attuazione delle norme minime dell’Ocse in materia di Beps.
La redazione di questo elenco si è resa necessaria considerato che l’esistenza di queste giurisdizioni comporta gravi perdite finanziarie per l’Unione, il che sottrae risorse ai bilanci nazionali e ostacola la capacità dei governi. Ogni anno, infatti, il costo dell’elusione dell’imposta sulle società è stimato in 500 miliardi di dollari, come emerge da uno studio condotto dai ricercatori del Fondo monetario internazionale (Fmi) e pubblicato nel 2016. Attenzione, lo scopo dell’elenco non è quello di fomentare una caccia alle streghe, stigmatizzando queste nazioni, ma di incoraggiare un cambiamento positivo nelle rispettive legislazioni e prassi fiscali attraverso la cooperazione.
Tuttavia, la loro esistenza nonché i conseguenziali danni ai bilanci nazionali non possono passare in sordina proprio oggi, in un contesto che vede tutti gli Stati (non solo Ue) impegnati nella ripresa dalla crisi sanitaria, sociale ed economica causata dal covid-19. Alla luce di ciò, gli eurodeputati invitano il Consiglio a coinvolgere, nell’attività di revisione dell’elenco, sia la Commissione che il Parlamento Ue, attribuendo a quest’ultimo un ruolo di osservatore nelle discussioni del gruppo “Codice di condotta” nonché un’audizione pubblica almeno una volta l’anno.
La risoluzione, poi, individua un ulteriore punto debole nella disparità di condizioni tra i paesi che aderiscono allo standard comune di comunicazione dell’Ocse e quelli che aderiscono, invece, alla legge statunitense sugli adempimenti fiscali dei conti esteri (Foreign account tax compliance act – Fatca). La Fatca, nata nel 2010 in risposta al massiccio esodo di capitale fronteggiato dagli Stati Uniti, consente dall’Autorità fiscale statunitense di ottenere informazioni sulle movimentazioni finanziarie negli Stati contraenti. Tuttavia, definire quello imposto dal Fatca uno scambio di informazioni automatico multilaterale non parrebbe corretto, se si considera che, anche solo letteralmente, uno scambio presuppone un do ut des e non un mero flusso unilaterale di informazioni (sebbene automatizzato e regolato da un accordo di carattere internazionale). E a detta del Parlamento, la mancanza di reciprocità della Fatca statunitense dovrebbe essere esaminata alla luce del criterio di trasparenza.
Non esente da critiche anche il criterio della tassazione equa, che non dovrebbe limitarsi alla natura preferenziale delle misure fiscali, ma dovrebbe prendere in considerazione ampie esenzioni fiscali e disallineamenti in materia di prezzi di trasferimento. Sul punto, il Parlamento, rammentando che l’attuale processo di inserimento nell’elenco non include un criterio autonomo relativo alle aliquote d’imposta pari a 0% o molto basse, invita la Commissione e il gruppo Codice di condotta:
- ad includere nella valutazione misure fiscali che portino a bassi livelli di tassazione, in linea con i negoziati in corso sul secondo pilastro del quadro inclusivo dell’Ocse/G20, in particolare per quanto riguarda la tassazione minima;
- a fissare a un livello equo e sufficiente qualsivoglia aliquota effettiva minima e di tenere conto dell’aliquota legale dell’imposta sul reddito media dell’Ue al fine di scoraggiare il trasferimento degli utili e prevenire una concorrenza fiscale dannosa.
Nel contempo, il Parlamento invita a tener conto della posizione dei Paesi meno sviluppati: il fatto che alcuni Paesi in via di sviluppo potrebbero non disporre delle risorse necessarie per attuare rapidamente le nuove norme fiscali concordate dovrebbe essere sistematicamente preso in considerazione nelle future valutazioni. Pertanto, il Consiglio non dovrebbe considerare, nell’ampliamento geografico della Black List europea, i tagli agli aiuti allo sviluppo che avrebbero un impatto diretto sui beneficiari finali degli aiuti come contromisure.
Infine, merita attenzione l’invito rivolto alla Commissione di valutare la possibilità di presentare una proposta legislativa per misure difensive coordinate contro l’elusione e l’evasione fiscali, che potrebbe includere:
- non deducibilità dei costi;
- norme potenziate sulle società controllate estere;
- misure di ritenuta alla fonte;
- limitazione dell’esenzione della partecipazione;
- una regola dello switch-over;
- conseguenze per gli appalti pubblici e gli aiuti di Stato;
- requisiti speciali in materia di documentazione;
- sospensione delle disposizioni della convenzione sulla doppia imposizione.
Dunque, non ci resta che attendere i prossimi sviluppi. Nonostante l’auspicio di arrivare a una conclusione definitiva entro il 2021, non sembra che l’attuale processo di scambi istituzionali dell’Ue sia predisposto per giungere a una riforma rapida.